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RIGENERARE IL FUTURO. OLTRE LA CRESCITA OLTRE IL PATRIARCATO. Seminario di studi sui movimenti sociali per la decrescita, l’ecologia, il femminismo

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Parma 5-6 novembre 2015

Negli anni difficili della “crisi economica e finanziaria” il pensiero mainstream ha continuato senza posa ad invocare politiche e ricette basate sul rigore e l’austerità per rilanciare la crescita come unica possibilità di salvezza e speranza per il domani. Eppure da qualche decennio studi e ricerche hanno sempre più messo in discussione la presunta connessione tra crescita, felicità e qualità della vita. I dubbi e le critiche hanno riguardato gli effetti negativi in termini di impatto ambientale, di disuguaglianze socio-economiche, di relazioni tra generi e generazioni. Le analisi hanno posto l’attenzione o l’accento su aspetti differenti: il nodo produzione e cura, il nodo antropocentrismo e antispecismo, il nodo metabolismo e sostenibilità, il nodo consumo e demercificazione, il nodo privatizzazione e pubblicizzazione, il nodo reddito ed equità, il nodo flessibilità e sicurezza sociale. In questo seminario studiosi e studiose provenienti dall’alveo del femminismo, dell’ecologia e della decrescita si confronteranno sulle possibilità di ripensare i nostri modelli di benessere e di immaginare una transizione verso una civiltà sostenibile e rispettosa delle differenze.

Con la partecipazione fra gli altri di:

Antonella Bachiorri, Tiziana Banini, Mauro Bonaiuti, Roberto Cargnelli, Alberto Castagnola, Stefano Ciccone, Giacomo D’Alisa, Daniela Danna, Federico Demaria, Marco Deriu, Antonia De Vita, Alessia Di Dio, Gloria Fenzi, Diego Ferraris, Roberta Gandolfi, Anna Kauber, Gianfranco Laccone, Serge Latouche, Alberto Leiss, Sergio Manghi, Paola Melchiori, Alfonso Navarra, Rita Palidda, Vincenza Pellegrino, Eleonora Gea Piccardi, Antonella Picchio, Grazia Pratella, Alessandra Puglisi, Annamaria Rivera, Franco Romanò, Marco Sacco, Elena Skoko, Gianni Tamino, Pierre Tosi, Chiara Zamboni, e rappresentanti di Kuminda ­-  Cibo per tutti.

 

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ELENCO INTERVENTI SESSIONI DI APPROFONDIMENTO

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Gianni Tamino su Alex Langer (2): La terra in prestito dai nostri figli. Biodiversità e clima. La responsabilità delle politiche globali e di virtuose pratiche locali

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In questi mesi ho notato molte analogie tra quanto scritto da Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si” e vari articoli e interventi di Alexander Langer: si pensi alla “conversione ecologica” (capitolo VI.III), termine utilizzato da Alex già dalla metà degli anni ’80, o “decrescita”, termine oggi molto utilizzato (nei libri di Serge Latouche e dai movimenti presenti in varie parti del mondo che si rifanno alla teoria della decrescita), citato anche da Francesco nel paragrafo 193, ma anticipato da Langer nel 1992[1] (seppure con la variante grafica “de-crescita”).

Trovo particolarmente interessante il riferimento alla terra, che ci è data in prestito dai nostri figli: nell’enciclica vi è una frase, al paragrafo 159, tratta da una lettera pastorale dell’episcopato portoghese del 2003 (L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva), ma Alex utilizza questo concetto già nel 1989[2] (“la terra ci è stata solo prestata dai nostri figli”), collegandolo ad un motto utilizzato dai verdi italiani nel 1986 (Convegno internazionale dei Verdi, a Pescara).

La frase, ampiamente riportata negli ultimi tempi, con varie sfumature (ad esempio: “Noi non ereditiamo la terra dai nostri padri,we borrow it from our children. la riceviamo in prestito dai nostri figli”), viene di solito attribuita ai nativi americani o ad un discorso di Seattle, capo delle tribù Duwamish e Suquamish. In realtà si sa solo che probabilmente qualcosa di simile era un proverbio dei nativi americani, come si deduce da quanto scrive chi per primo, nel 1971, ha espresso una frase simile: il noto ambientalista statunitense Wendell Berry[3], che, affermando “il mondo non ci è dato dai padri, ma in prestito dai figli”, collega tale visione o a persone eccezionali della nostra cultura o a coloro che appartengono a culture meno distruttive della nostra (e qui il riferimento potrebbe essere ai nativi americani).

Ma chiunque sia stato il primo ad aver ideato tale concetto, quello che ci interessa è capire il senso di tale frase, che sicuramente appartiene ad una visione etica e prospettica della difesa dell’ambiente.

Come spiega Alex nel testo citato, la generazione attuale sta mettendo a rischio le condizioni di vita delle prossime: vi è, in altre parole, un impatto generazionale sul quale dobbiamo riflettere. Ma Alex aggiunge che una denuncia solo catastrofista non trova seguito nella maggior parte della gente: “la paura è cattiva consigliera” e porta ad accettare la situazione (tanto siamo perduti e non c’è niente da fare). Dobbiamo “perderci per trovarci”, cioè autolimitarci per ridurre il nostro impatto generazionale, con grande spinta etica verso le future generazioni, ma anche rendendoci conto che questa autolimitazione ci fa ritrovare una migliore qualità della vita. Dobbiamo, spiega Alex, collegare le ragioni “altruiste”, verso le future generazioni (nobili, ma non sempre efficaci), con quelle “egoiste”, che ci diano dei vantaggi già oggi. Così rinunciare al trasporto privato quando quello pubblico funziona, oppure utilizzare fonti rinnovabili anziché energia di origine fossile ci permette di ridurre l’effetto serra (particolarmente pericoloso per i nostri figli e nipoti) ma anche di avere meno inquinamento e minor rischio di malattie fin da subito.

Oggi, rispetto a quando Langer scriveva questo testo, la situazione è fortemente peggiorata: si prospettano cambiamenti climatici comunque inevitabili, dato che, anche riducendo da subito i gas serra, ci sarà un innalzamento futuro della temperatura di circa 2 gradi, ma, senza interventi, l’aumento a fine secolo potrebbe arrivare a 5 gradi, con conseguenze catastrofiche, e si parla di sesta estinzione di massa a causa dell’alterazione di molti ecosistemi, con perdite di migliaia di specie.  Abbiamo inoltre nuovi strumenti per valutare l’impatto generazionale: l’impronta ecologica e l”overshoot day”, nonché tutti i recenti documenti dell’IPCC[4] (Intergovernmental Panel on Climate Change) cioè il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, voluto dall’ONU.

L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo e l’utilizzo di fonti fossili per ogni esigenza energetica sta gravemente compromettendo la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione. L’estinzione è un processo naturale ma ora, a causa delle attività umane, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. La comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell’uomo. Moltissime sono le specie minacciate e alcuni scienziati sostengono che il 10-20% delle specie attualmente viventi sul pianeta si estingueranno nei prossimi 20-50 anni. Secondo le stime dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN)[5] sarebbero più di 7 mila le specie animali e circa 60 mila quelle vegetali a rischio estinzione. Nella lista rossa, le specie animali sono cresciute dalle oltre 5 mila del 1996 alle quasi 7.300 del 2004. E tra queste sono compresi il 25% dei mammiferi conosciuti e l’11% degli uccelli. Delle 350 mila specie vegetali conosciute, invece, sono 60 mila quelle che rischiano di estinguersi. Si tratterebbe della “sesta estinzione di massa” della storia, conseguente al cattivo stato di salute della Terra, mai così critico da 65 milioni di anni a questa parte, ovvero dalla scomparsa dei dinosauri. Un disastro mai visto prima, se si pensa che a causare le crisi precedenti ci sono voluti svariati milioni di anni e delle catastrofi naturali, non, come oggi, poco più di un secolo di “rivoluzione industriale”.

Per verificare la sostenibilità o l’insostenibilità dell’attività umana si possono utilizzare vari metodi, tra cui la cosiddetta “carryng capacity” o capacità di un territorio di sostenere una popolazione, oppure l’impronta ecologica, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano.

L’impronta ecologica, proposta nel 1996 da Wackernagel e Rees[6], ha avuto una concreta e diffusa applicazione e, nel corso degli anni, diverse èquipe hanno sviluppato studi complessi relativi alle “impronte ecologiche” di città, nazioni e realtà specifiche.  Fino a quando la Terra potrà sostenere il peso di un’umanità, che identifica lo “sviluppo” con la “crescita” e questa con la ricchezza monetaria? Ribaltando l’approccio tradizionale alla sostenibilità viene proposto di non calcolare più quanto “carico umano” può essere sorretto da un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l’impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera.

L’impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l’area su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio e dai consumi. Questa analisi, inoltre, facilita il confronto tra regioni, rivelando l’effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito sull’impatto ecologico. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA e dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore eritreo (USA 12, Italia 4,2, Eritrea 0,35), che è come dire che sul pianeta uno statunitense “pesa” come 35 eritrei.

Per ridurre la nostra eccessiva impronta ecologica i consumi devono essere quantitativamente e qualitativamente sostenibili. Così la scelta dei prodotti industriali deve riguardare le modalità con cui sono stati prodotti, l’energia utilizzata, i materiali che li compongono e la loro origine, la loro durata, la loro riciclabilità, evitando consumi superflui. Analogo discorso va fatto per l’uso dell’energia, dell’acqua e dei trasporti.

Dobbiamo poi favorire un’agricoltura sostenibile, ripensando non solo come produrre, ma anche cosa e per chi. E’ necessario passare dalla logica quantitativa, basata sulla produttività, che ha caratterizzato l’agricoltura intensiva, nata dalla rivoluzione verde, alla logica qualitativa, basata sulla compatibilità ambientale e sulla salubrità dei prodotti.

Ciò significa rispettare il patrimonio naturale e passare da produzioni lineari a processi ciclici, mentre la sostenibilità richiede in tutte le aree del pianeta produzioni finalizzate a mercati prevalentemente regionali, con l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare. Ma per poter sfamare tutta l’umanità occorre anche modificare la dieta prevalentemente carnea dei paesi ricchi, verso una dieta simile a quella mediterranea, più sana e sostenibile, anche rispetto ai cambiamenti climatici (gli allevamenti intensivi contribuiscono significativamente alle emissioni di gas serra).

L’insostenibilità del nostro modo di produrre sta nella linearità, cioè nel prelevare risorse naturali esauribili (come le fonti di energia fossile e i minerali) per utilizzarle in processi produttivi che producono una gran quantità di rifiuti e di inquinamento, oltre all’oggetto da vendere, di effimera durata, che diviene a sua volta rifiuto, spesso non riciclato o peggio non riciclabile. Ma anche le risorse rinnovabili (come i prodotti naturali di origine vegetale o animale, utilizzati sia come cibo che nei processi industriali: si pensi al legno dei boschi o al pesce del mare) sono prelevati (rapinati) negli ecosistemi, in misura insostenibile, cioè in quantità maggiore rispetto alla naturale capacita di rigenerazione (si cattura ogni anno più pesce di quanto si riproduce in quell’anno, così l’anno successivo ci sarà una minore produzione naturale, ma un maggior prelievo, fino all’esaurimento della risorsa). Se consideriamo l’insieme delle risorse rinnovabili possiamo verificare che ogni anno esauriamo la quantità prodotta dalla natura in un tempo sempre più breve: il giorno in cui tali risorse vengono esaurite viene chiamato “overshoot day”[7]. L’ultima volta che le risorse sono state esaurite alla fine dell’anno, cioè il 31 dicembre, risale al 1986, mentre negli ultimi anni siamo arrivati alla metà del mese di agosto: è come dire che dopo tale data e per tutti i giorni da settembre a dicembre stiamo intaccando il capitale naturale, portando all’esaurimento le risorse (bosco, foresta, stock ittico, ecc.). Tutto ciò non significa solo esaurimento delle risorse, ma anche distruzione degli ecosistemi e degli habitat di molte specie che vanno verso l’estinzione.

Ma finora, di fronte a tali gravi emergenze, che stanno alterando la qualità della vita delle attuali popolazioni del pianeta e che rischiano di compromettere la sopravvivenza di quelle future, sia i governi locali che gli organismi internazionali si sono dimostrati impotenti, condizionati dallo strapotere delle multinazionali, soprattutto quelle legate al petrolio, tra le più potenti al mondo. Dopo venti anni di dibattiti e illusori accordi per ridurre i cambiamenti climatici, la situazione ha continuato ad aggravarsi e, di fronte alla crisi economica che ha origini anche nella crisi ecologica, i governi hanno proposto interventi che richiedono nuove produzioni e nuovi consumi, nella speranza di far crescere il prodotto interno lordo.

Ma gli esseri umani non sono i padroni della natura: come esseri viventi, e perciò parte della natura, devono interagire con il proprio ambiente, anche modificandolo, ma, come esseri pensanti e quindi responsabili delle proprie azioni, devono rispettarne le regole e i criteri, come, ad esempio, i cicli biogeochimici, che permettono un uso razionale delle risorse. Buy cheap bridesmaid dresses online. Come affermano Prigogine e Stengers[8] (autori del famoso saggio «La nuova alleanza») la nuova epistemologia deve passare da una conoscenza manipolatrice della natura, che seleziona e semplifica i sistemi oggetto di studio, ad una conoscenza volta ad approfondire l’intreccio complesso di connessioni tra i diversi sistemi, alla luce della coordinata tempo. Alla rozza semplificazione dei fenomeni naturali come fenomeni meccanici, bisogna sostituire un’analisi della complessità dei sistemi, interagenti tra loro, considerando l’irreversibilità dei fenomeni temporali, ciò che porta a riconoscere la storicità di una epistemologia naturale. Questa epistemologia naturale è una necessaria premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane «non riducano a merce ogni bene materiale ed immateriale», come afferma M. Cini[9], ma sappiano inserirsi nei complessi e delicati equilibri dinamici, presenti nell’ambiente naturale, senza distruggerli, senza trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli organismi viventi.

In altre parole occorre abbandonare un’economia basata solo sulla crescita e sull’aumento del PIL per avviarci verso una nuova economia, intesa come scelta volontaria di una società che decresce, che, come dice Serge Latouche[10],“ è una scommessa che vale la pena di essere tentata per evitare contraccolpi brutali e drammatici”. Oltre venti anni fa Langer[11] osservava: “Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono (basti pensare all’attuale scontro sul petrolio) o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il ‘più grande, più alto, più forte, più veloce’ chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri viventi.” E sempre Langer metteva in luce che quest’ultima è un’utopia ‘concreta’, mentre la crescita illimitata, basata sul ‘sempre più veloce e sempre più grande, è una pericolosa illusione, comunque irrealizzabile.

Vi sono molte iniziative concrete e buone pratiche, che, come dice Paul Hawken[12] in ‘Moltitudine inarrestabile’, sono portate avanti spesso da piccole realtà, che “non si riconoscono nelle ideologie tradizionali e non fanno riferimento a leader o a istituzioni centrali. Hanno obiettivi che dipendono dai contesti in cui operano e dalla loro storia”. L’elenco delle ‘buone pratiche’ è vasto: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, laboratori di autoproduzione, microcredito, radio e tv di strada, last minute market, mobilità dolce e auto condivise, cohausing, cooperative di auto recupero, in altre parole una gestione condivisa dei beni comuni.

[1] Langer A. L’intuizione dell’austerità, “Mosaico di pace”, n.9 – novembre 1992 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/143/2750)
[2] Langer  A. Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli, «Servitium», settembre 1989 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/148/3315/print)
[3] Berry W. “The Unforeseen Wilderness: An Essay on Kentucky’s Red River Gorge” U P Kentucky , 1971
[4] si veda l’ultimo volume: Climate Change 2014 – Synthesis Report – Summary for Policymakers http://www.ipcc.ch/report/ar5/syr/
[5]  Lista Rossa IUCN (Stuart et al. The barometer of life. Science 328:177, 2010)
[6] Wackernagel M. e W. E. Rees  “L’impronta ecologica”, Ed. Ambiente, 2000
[7] Global Footprint Network’s:  http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/earth_overshoot_day/
[8] Prigogine I.  e I. Stengers “La nuova Alleanza”, Einaudi, 1981
[9] Cini M. “Dialoghi di un cattivo maestro”, Bollati Boringhieri, 2001
[10] Latouche S. “La scommessa della decrescita”, Feltrinelli 2007
[11] Langer A., in:”Azione nonviolenta” , 1991
[12] Hawken P. “Moltitudine inarrestabile” Ed. Ambiente, 2009

Gianni Tamino su Alex Langer (1): I corpi civili di pace e la decrescita

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Alexander Langer (Alex per gli amici) è stato visto come un profeta, o un vulcano, o il più impolitico dei politici, o il padre nobile dei Verdi, o un rivoluzionario mite, o tante altre cose ancora. Vorrei però soffermarmi su Langer profeta: sia in vita che dopo la morte troviamo articoli su di lui che lo definiscono “profeta verde” (lo stesso Alex dirà[1]: nel 1985 mi trovo apostrofato come “profeta verde”), ma anche “profeta inascoltato”, “profeta del nostro tempo” e “profeta della nuova Europa”.

Come ha ben spiegato Marco Boato[2]: “Un profeta a volte contestato e disconosciuto o ignorato, finché è stato in vita: ‘nemo propheta acceptus est in patria sua’, si potrebbe dire, riecheggiando la lezione evangelica. Un ‘profeta’ che, inoltre, su molte questioni ha visto più lontano dei suoi contemporanei, ha anticipato i tempi in modo lungimirante, ma non ha potuto vedere in vita la ‘terra promessa’.”

Alex aveva visto lontano su molti temi, ma mentre su alcuni si stanno aprendo importanti spiragli, su altri, anche se le sue proposte sono ancora di grande attualità, si alternano fasi positive a momenti di oblio.

Nel corso di questi ultimi anni, dapprima al Parlamento Europeo e poi nell’ambito delle attività di alcune associazioni di cui faccio parte, ho avuto modo di seguire, tra gli altri, due argomenti che Alex aveva individuato come temi prioritari: la prevenzione dei conflitti armati, con la proposta di “Corpi Civili di Pace” e la critica all’idea di uno sviluppo solo economico, basato sulla continua crescita.

L’idea di “Corpi civili di Pace” (o con nomi simili) era già stata sviluppata negli anni ’80 da molte organizzazioni pacifiste e nonviolente, sulla scorta del progetto di Shanti Sena (Esercito della Pace/Brigate di Pace) proposto da Gandhi e nel 1990, Alberto L’Abate organizzò un campo di pace a Bagdad dove si riunivano i “Volontari di Pace in Medio Oriente”, provenienti da varie parti del mondo, che cercarono di prevenire la prima guerra del Golfo (poi L’Abate realizzò un progetto simile in Kossovo).

Ma fu dopo la crisi della ex Jugoslavia e soprattutto durante il conflitto in Bosnia che si vide chiaramente la necessità di intervenire con metodi nonviolenti per prevenire la guerra. Infatti l’opzione militare non solo non può prevenire i conflitti, ma non può neppure riportare la pace, tutt’al più può far cessare uno scontro armato e da qui la necessità di istituire strutture riconosciute a livello internazionale di “corpi civili di pace”, con lo scopo di favorire il dialogo tra le parti in conflitto, ripristinare condizioni di reciproca fiducia, sviluppare i valori della convivenza e della coesistenza pacifica, sia per prevenire che per favorire una ricomposizione pacifica dei conflitti. Ma questo non significa utilizzo dei corpi civili di pace come interposizione preventiva prima dell’inizio di un conflitto armato o di utilizzo dei corpi civili di pace addirittura nel momento in cui scoppia la guerra, ipotesi che venne esclusa sia da Arno Truger come da Langer, che scriveva[3]: “Se il conflitto si trasforma in una vera guerra, i civili farebbero meglio a fuggire dal campo di battaglia”.

Su queste basi Alex propose all’inizio del 1995 un emendamento che prevedeva l’istituzione del “Corpo Civile di Pace Europeo” (CCPE) alla Raccomandazione su “L’azione umanitaria della UE” e poi analogo emendamento al Rapporto Boulanges – Martin sulla Conferenza Intergovernativa per la Revisione dei Trattati, adottato dal Parlamento Europeo il 17 maggio 1995, e, in entrambi i casi, il Parlamento Europeo approvò tale proposta.

L’idea non era nuova per Alex, che aveva già proposto nel 1990 a quello che fu definito “Parlamento Verde d’Europa”, riunitosi a Strasburgo dal 3 al 5 luglio 1990 su invito del Gruppo verde al PE, una risoluzione che conteneva questa frase:”l’istituzione di un “corpo di pace europeo” (multinazionale) nel quale giovani di tutti i paesi e di ambo i sessi possano svolgere un servizio di volontariato civile, sociale ed ecologico…”.

Che fine ha fatto questa proposta dopo la morte di Alex? Possiamo affermare che per un certo periodo, a livello europeo, l’ipotesi continuò ad essere presa in esame, in particolare con la raccomandazione, approvata dal Parlamento Europeo il 10 febbraio 1999, sull’istituzione di un Corpo di pace civile europeo. A questo voto fece seguito la Risoluzione del PE sulla Comunicazione della Commissione riguardante la prevenzione dei conflitti, del 13 dicembre 2001, dove si sottolinea la necessità di istituire il CCPE nel quadro del «Meccanismo di reazione rapida» della Commissione, e poi due studi di fattibilità: On the European Civil Peace Corps, a cura di Catriona Gourlay, del gennaio 2004, commissionato dal PE, e Feasibility Study on the Establishment of a European Civil Peace Corps (ECPC), a cura di P. Robert, K. Vilby, L. Aiolfi e R. Otto, del novembre 2005, commissionato dalla Commissione europea. Ma il progetto negli anni successivi non si è concretizzato nella direzione proposta e, nonostante le iniziative e le richieste da parte delle associazioni nonviolente, oggi, con i gravi conflitti in atto, è totalmente trascurato dall’Europa.

Unica eccezione, una recente decisione presa dal Parlamento Italiano su proposta dell’on. Marcon, che ha presentato un emendamento con cui è stato inserito nella Legge di Stabilità del 2014 uno stanziamento triennale (periodo 2014-2016), per nove milioni di euro per l’invio di almeno cinquecento giovani volontari in servizio civile in azioni non-governative di pace, in zone di crisi e di conflitto. Quest’anno il Governo ha poi affermato che, dopo questa fase sperimentale di tre anni, nel 2017, a seguito di un attento monitoraggio svolto da Università e centri di ricerca, verrà deciso se stabilizzare nella legislazione italiana i Corpi civili di pace.

Dunque la proposta di Alex, dopo venti anni, è ancora di attualità, di essa si discute, ma si fa fatica a renderla pratica quotidiana nella politica dei governi europei e tanto meno dei governi a livello mondiale.

Diversa sorte per certi aspetti ha avuto invece l’idea di Alex di un’economia non basata solo sulla crescita. Già nei primi anni ’80 Langer affrontò la questione della crescita economica, intrecciando i temi del lavoro, dell’economia e dell’ambiente. Durante un incontro sindacale tenutosi nel 1982 a Garda, Alexander affermò[4]: “Il problema principale con cui i sindacati dei paesi industrializzati devono fare i conti è se impostare le proprie energie su ipotesi di crescita economica (del prodotto, della produttività, del volume degli scambi, del livello tecnologico, ecc.) ed impegnare le proprie forze in direzione di tale crescita, o prevedere, magari operando in tal senso, che la crescita, l’espansione economica quantitativa tendano ad arrestarsi e ridefinire, di conseguenza, l’intera strategia sindacale?”

E’ un’anticipazione dell’idea di decrescita, che, sebbene presente nell’opera di Georgescu-Roegen[5] fin dal 1971, sarà sviluppata solo in tempi più recenti da Serge Latouche; lo stesso Langer usa questo termine nel 1992, parlando dell’idea di austerità, proposta nel 1977 da Enrico Berlinguer,[6] ” Vediamo dunque se il termine ‘austerità’ può caratterizzare oggi uno stile di vita ed un’opzione sociale accettabile e persino desiderabile, o se invece si tratti sempre e di nuovo di un involucro mistificante per arrivare poi al solito dunque, quello di ri-capitalizzare e di dare impulsi a quella che chiamiamo ripresa economica […]. Accettare oggi la positiva necessità di una contrazione del «troppo» e di una ragionevole e graduale de-crescita, e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un’idea positiva di austerità come stile di vita compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, bensì come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione […]”.

In queste parole vi è già un’anticipazione di quanto affermerà, su questo tema, nel 1994, durante i colloqui di Dobbiaco: “La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”. L’idea di decrescita, come rifiuto di un’economia basata sulla crescita, viene definita da Alex come “conversione ecologica”: si badi bene non “riconversione”, ma “conversione”, cioè una svolta spirituale, etica e sociale oltre che economica. Come afferma Guido Viale[7], è un concetto che “rimanda innanzitutto a un cambiamento del nostro stile di vita, dei nostri consumi, del modo in cui lavoriamo e del fine per cui lavoriamo o vorremmo lavorare, del nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente.”

Un vero cambiamento di paradigma, dunque rispetto al concetto molto più diffuso di “sviluppo sostenibile, criticato sia da coloro che si rifanno alla teoria della decrescita (come Serge Latouche) che da Langer[8]: ”Molti ecologisti e ambientalisti a vario titolo adesso adottano volentieri la formula “sviluppo sostenibile”, anche perché la nostra esperienza nella vita quotidiana ci dice che ciascuno di noi si ritrova molto dentro il processo di crescita. Sono pochi coloro che riescono a sottrarsi in misura sufficiente ad esso. Basta pensare allo “sviluppo” del nostro reddito e delle nostre aspirazioni di consumo. Molti ecologisti cercano una compatibilità tra crescita ed equilibrio ecologico. E in molti casi, penso, tale compatibilità esiste. Credo invece che ci sia un grande squilibrio tra i popoli. Da questo punto di vista, siamo noi che dovremmo fermarci e vedere se altri popoli possono arrivare ad un livello di soddisfacimento dei bisogni essenziali, prima di decidere di prenderci un’altra fetta della torta e peraltro guastarne il resto. Molti verdi oggi non hanno il coraggio di dire che in certi ambiti dovremmo fermarci e magari tornare indietro per quanto riguarda il livello dei consumi.”

Già nel 1991 Langer affermava[9], in sintonia con una visione di decrescita: “Ci troviamo dunque – in termini netti e semplici – al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via dello sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono (basti pensare all’attuale scontro sul petrolio) o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il «più grande, più alto, più forte, più veloce» chiamata sviluppo per ri-elaborare gli elementi di una civiltà più «moderata» (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerabile nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa «bio-diversità» (anche culturale) degli esseri viventi..” Lo stesso concetto, espresso nel motto «lentius, profundis, soavius» (più lento, più profondo, più dolce), è stato utilizzato da Alexander in più occasioni, fino a diventare il simbolo dell’Associazione «Pro Europa» da lui fondata nel 1994.

Per queste ragioni Serge Latouche[10] ha detto: “Alex Langer aveva identificato benissimo i problemi da affrontare e le vie per risolverli. Quel che è incredibile è che il suo pensiero sia stato totalmente dimenticato, perfino in Italia, dove in pochi oggi parlano ancora di lui. Anche per questo mi sono impegnato nella direzione di una collana editoriale dedicata ai precursori della decrescita”.

Ma Langer non solo ha anticipato quella corrente di pensiero che oggi va sotto il nome di “decrescita”, ma anche molti dei temi che si ritrovano nell’enciclica di Papa Francesco “Laudato si”, basti pensare alla dizione “conversione ecologica” (Capitolo VI, III. La conversione ecologica [216-221] p.164) e al termine decrescita ([193], p. 147), utilizzato nell’enciclica in modo molto simile ad Alex: “Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti.”

NOTE
[1] Minima personalia, un’autobiografia scritta da Alexander Langer nel 1986 (riportato in http://www.alexanderlanger.org/it/75/55?s=profeta+verde&mode=and )
[2] rivista culturale “Il Cristallo”, Bolzano, n.1 –  2015
[3] Intervento di Alexander Langer pubblicato su Azione nonviolenta nell’ottobre 1995
[4] Atti pubblicati a cura di J. Agnoli, Sindacato Stato Società: il sindacato oggi tra movimento e istituzioni, UIB UIL Materiali a stampa, Cadoneghe, 1983 (riportato in http://www.alexanderlanger.org/it/141/212)
[5] N. Georgescu-Roegen The Entropy Law and the Economic Process, Cambridge, Mass.: Harvard University Press (1971), in Italia Energia e miti economici [scritti 1970-1982], Torino, Bollati Boringhieri. (1998)
[6] Alexander Langer, L’intuizione dell’austerità, “Mosaico di pace”, n.9 – novembre 1992 ( riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/143/2750)
[7] Guido Viale Che cos’è la conversione ecologica, Alfabeta2 27 settembre 2011  (www.alfabeta2.it/2011/09/27/che-cose-la-conversione-ecologica/)
[8] Alexander Langer Noi, fondamentalisti? a spasso per l’Europa; 10.2.1989, Azione nonviolenta, luglio-agosto 1996
[9] Alexander Langer La scelta è tra espansione e contrazione, atti del convegno “Sviluppo? Basta! A tutto c’è un limite”, Verona, 28 ottobre 1990, pubblicato in Azione Nonviolenta, n. 3/91, p. 22
[10] Recuperare il concetto del limite, intervista di Giuliano Battistoni a Serge Latouche, 9 febbraio 2014, http://www.hairbro.com

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Gianni Tamino: Imparare la relazione dalla natura. Il paradigma riduzionista non dà conto della realtà e della complessità

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La maggior parte dei problemi di cui si dibatte oggi, sono strettamente collegati tra loro. Aprendo un giornale ci troviamo di fronte ad argomenti diversi: la questione dei migranti e, qualche pagina più in là, i cambiamenti climatici, e poi il dissesto idrogeologico, le alluvioni. L’errore è vederli separati l’uno dall’altro. Siamo all’interno di una visione culturale-ideologica che fa riferimento a un paradigma “riduzionista”. Si tratta di una visione che, in passato, ha avuto una notevole importanza: non ci sarebbe probabilmente la nostra civiltà moderna, tutta la nostra tecnologia, senza questo paradigma, che però è sbagliato. Non è detto, però, che un paradigma sbagliato porti a risultati sempre sbagliati: prima di Galileo, i naviganti, pensando che la terra fosse piatta e al centro dell’universo, partendo cioè da una teoria sbagliata, ottenevano risultati corretti, che permettevano loro di arrivare nel porto voluto. È quello che avviene anche oggi quando, nonostante l’evidenza di un paradigma sbagliato, dominante nella cultura e soprattutto nell’economia, tutti vi fanno riferimento, con risultati parziali anche validi, ma con effetti globali disastrosi.

 

L’analogia dell’orologio

 

L’attuale paradigma dominante nasce con l’illuminismo, o forse ancor prima, sulla base di un’analogia tra la realtà e gli oggetti meccanici, come l’orologio, costituito da rotelle e molle, per cui si parla anche di meccanicismo. Per la cultura di quel tempo, basta pensare a Cartesio, qualunque organismo vivente poteva essere rappresentato alla stregua di una macchina, come l’orologio, che ha la proprietà di poter essere smontato e rimontato. Conoscendo le caratteristiche di ogni singola parte di un meccanismo e sommandole, si ha la proprietà complessiva dell’insieme.

Questo ragionamento ha una sua logica e nell’orologio è vero, ma non vale per i sistemi complessi, come i viventi, caratterizzati dal fatto che la somma delle proprietà non descrivono le proprietà dell’insieme, che sono, invece, “emergenti”. Emergono cioè dalla relazione fra le parti. Se consideriamo le cellule di organismi diversi, dal punto di vista dei componenti, così come dal punto di vista dei geni, sono molto simili. Un numero maggiore di geni, inoltre, non significa essere più complessi o più evoluti: il mais, ad esempio, ha più geni dell’uomo. Quello che conta non è la quantità o la sequenza, ma come i geni interagiscono fra loro e con la realtà intorno a loro.

La parte della biologia che se ne occupa non è la genetica ma la epigenetica, che studia le relazioni tra geni e ambiente, relazioni che definiscono come siamo. Non è vero che noi siamo il nostro Dna. Nel Dna ci sono dei messaggi che opportunamente utilizzati, in relazione a contesti specifici come lo sviluppo embrionale e l’evolversi della vita, e condizionati da fattori esterni, determinando quello che siamo. Perfino due gemelli monovulari non sono identici, non perché non abbiano gli stessi geni, ma perché hanno esperienze diverse che determinano utilizzi diversi dei geni. Questo significa che l’emergere delle proprietà è provocato dal fatto che un elemento interagisce con tutti gli altri e ogni nuovo evento determina a catena una reazione complessa di eventi che poi producono l’insieme delle proprietà dell’individuo.

Per capire cos’è una proprietà emergente si può fare un esempio semplice, quello dell’informazione: dire che in una scritta vi è informazione non è corretto. Una frase scritta diventa informazione solo nella relazione, cioè se c’è qualcuno in grado di interpretarla. L’informazione “emerge” dalla relazione con qualcuno in grado di leggere le parole scritte. Wedding dresses nz Così se viene a mancare la luce e non si vede più niente, o se uno è cieco, o se pure una persona vedente non sa leggere, ciò non significa che quello che c’è sia scomparso o sia diverso, manca la relazione e quindi non c’è informazione. La stessa cosa vale negli organismi viventi, in una prospettiva totalmente diversa da quella riduzionista, se consideriamo l’informazione genetica, che si realizza solo se può essere letta e tradotta grazie a specifici meccanismi molecolari e a segnali ambientali.

 

La realtà come relazione

 

La realtà intorno a noi deve essere concepita come relazione. Questo Convegno tratta della parabola del cibo, il passaggio da quello che il cibo era originariamente, un dono, a quello che è diventato oggi: merce. Il segno di pace, che si scambia durante la messa, è legato allo scambio del cibo. Già nelle popolazione primitive la dimostrazione di non ostilità si esprimeva attraverso l’offerta di cibo, come segno di rispetto. Il dono è convivialità, è relazione positiva. Questo vale in tutte le società.

Quando si è sviluppata l’agricoltura le popolazioni erano tendenzialmente pacifiche e, avendo più cibo, hanno avuto meno bisogno di farsi la guerra. La guerra è cominciata quando si sono incontrate società agricole e altre legate alla pastorizia. Se consideriamo l’episodio di Caino e Abele, nelle religioni che hanno la Bibbia come testo base, non possiamo individuare il cattivo con Caino, per il semplice fatto che quell’episodio è stato scritto da pastori. Caino, che era un agricoltore, non poteva offrire agnelli in sacrificio alla divinità, ma i greggi potevano danneggiare le sue colture. Ancora oggi le popolazioni che vengono considerate arretrate perché legate a una visione agricola, il primo gesto che fanno, come segno di pace, è offrire del cibo.

Nelle grandi città di oggi, dove non conosci il vicino di casa perché spesso vivi in “loculi” che si chiamano miniappartamenti, c’è la spersonalizzazione delle relazioni: il dramma della solitudine in mezzo a tanta gente. Non è la somma degli individui che fa la società, ma la relazione fra gli abitanti. Uno dei primi artefici di questa cultura individualista, liberista, è stata Margaret Thatcher, la quale teorizzava che non esiste la società, ma la somma dei suoi individui.

 

La visione riduzionista

 

Tutte le cose sono collegate tra loro, una cosa tira l’altra, dalla politica all’economia alla struttura sociale, fino ad arrivare alla scienza. Dall’inizio del secolo scorso, cioè dai primi anni del ‘900, i fisici hanno scoperto che la visione meccanicista e riduzionista è sbagliata. I biologi e i medici, invece, hanno continuato a pensare che il metodo riduzionista ancora funzioni. Proprio la medicina divide il corpo in parti e ignora l’insieme, al contrario della visione definita “olistica”, che non è una parola esoterica, ma vuol dire semplicemente che si tiene conto dell’insieme. Non si possono capire le relazioni se non si tiene presente l’insieme e gli effetti che le relazioni hanno sull’insieme.

In particolare, nel campo sanitario questo è importantissimo. Anche un’emozione si ripercuote sulla salute e crea effetti che fino a qualche tempo fa la medicina negava e che oggi, invece, vengono riconosciuti validi. L’epigenetica è una disciplina conosciuta da oltre mezzo secolo, ma solo negli ultimi anni si fanno studi per verificare la relazione tra geni e fattori ambientali.

Ritornando al cibo come dono, dobbiamo chiederci cosa è successo. Parlare di cibo significa riferirsi anche all’acqua, e bisognerebbe aggiungere anche l’aria, tornando ai famosi elementi degli antichi greci: aria, acqua, fuoco e terra che sono ancora validi, visti con gli occhi di oggi. Non possiamo vivere senza l’aria, non possiamo vivere senza la terra per coltivare, non possiamo vivere senza l’acqua da bere e non si può vivere senza energia, che all’epoca era rappresentata dal fuoco, come unica fonte. L’Enciclica Laudato si’ è un momento di visione di insieme, un bell’esempio di come si rovesci il paradigma riduzionista. Quello che si percepisce è un atteggiamento molto cauto, di chi non ha la verità in tasca, ma vuole risolvere i problemi con tutti gli uomini di buona volontà. È un atteggiamento fondamentale che si rivolge a tutte le fedi e che vale per qualunque persona, laico o credente.

Inizialmente  il cibo, l’acqua, l’aria, quello che gli economisti chiamano “servizi” che la natura forniva gratuitamente – cosa che continuerebbe a fare se non si fosse messo di mezzo il mercato – seguivano la logica del dono. Questa logica della natura che ci offre “servizi” (tra virgolette perché il concetto di servizio, come quello di merce, è svilente), ha una complessità di condizioni, in cui le relazioni sono anche di tipo alimentare¸ e ogni organismo può essere al tempo stesso preda e predatore. Il lupo cattivo disneyano è una distorsione, in quanto il lupo svolge solo la sua funzione, per cui cacciare per mangiare fa parte degli equilibri naturali. Se il lupo non svolgesse il suo ruolo sarebbe un disastro: infatti, quando l’uomo distrugge il lupo, o i carnivori in genere, allora succedono i disastri, perché gli erbivori, che non sono più controllati dai carnivori, si diffondono, distruggono il bosco, rovinano i raccolti. Ma, nella nostra concezione, è il lupo che bisogna distruggere, o l’orso! Nessuno si pone il problema che gli equilibri della natura son quelli che ci garantiscono la possibilità di avere il massimo di stabilità naturale, con il massimo di biodiversità.

La stabilità è misurabile in numero di specie presenti in un territorio, ma anche in numero di varietà o varianti di ciascuna specie. La diversità è garanzia di stabilità, l’opposto della visione riduzionista e meccanicista, che tende all’omogeneità e il massimo di omogeneità è il deserto. Se vogliamo un equilibrio stabile, non statico ma dinamico, deve esserci molta diversità. Le due impostazioni portano a risultati diametralmente opposti. La cultura dominante oggi è ancora quella riduzionista che ci porta verso la perdita di biodiversità, la rottura degli equilibri, i disastri che vediamo a livello ambientale, ma anche a livello sociale e politico.

Cibo e acqua sono indispensabili per la vita, sono sempre stati visti come dono della natura e offerti come segno di buona volontà per dimostrare rapporti e relazioni amichevoli, ma sono anche diritti. Non possiamo affermare, come si è fatto dall’illuminismo in poi, che c’è il diritto alla vita se poi neghiamo le condizioni perché la vita si realizzi. Senza garantire acqua, aria pulita e cibo, si nega il diritto alla vita. C’è una bella contraddizione tra i diritti dell’uomo, affermati in tutte le costituzioni, e lo sviluppo di un’economia, che nega questo diritto.

 

Partire da dove ci siamo persi

 

Abbiamo intrapreso una strada che ci porta in un vicolo cieco. La persona stupida insiste per quella strada, quella intelligente ha il coraggio di tornare indietro. Non per tornare ai tempi passati, ma per ritrovare una strada corretta. Si tratta di dire: “Abbiamo imboccato una strada sbagliata” e utilizzare il buon senso per cercarne una nuova, anche tornando indietro, per poi andare avanti. Se sono di fronte a un precipizio non accelero, freno e magari cerco di non cadere giù. La logica della crescita continua è come essere di fronte a un precipizio e decidere di accelerare sempre di più. Per crescere sempre di più bisogna consumare sempre di più, produrre sempre di più, distruggere la natura sempre di più, distruggendo anche le relazioni umane, come sta avvenendo al giorno d’oggi.

Non voglio dire che dobbiamo percorrere una strada precisa già individuata, precostituita: nessuno di noi ha l’alternativa bella e pronta. Come viene scritto anche nell’Enciclica non c’è una unica via, dobbiamo cercarla tutti insieme. O la troviamo insieme o non la troveremo. Sicuramente la strada che dovrà scegliere l’Italia è ben diversa da quella dell’Angola, del Brasile o della Cina. Però la strada deve essere convergente verso un unico obiettivo: quello di una stabilità degli equilibri naturali e sociali che vanno verso la giustizia, il ripristino di quelle relazioni di buona volontà, in cui il diritto è garantito.

A mio avviso, in questo momento, per poter “tornare indietro” occorre anzitutto fermarsi, per capire dove ci siamo persi, dove abbiamo abbandonato le regole dell’economia della natura. Comprendere per quale motivo stiamo seguendo un’economia sbagliata, imposta da una cultura prima liberale, che era meno peggio di quella attuale, poi liberista, distruttiva. Tutta l’economia della natura si basa sulla produzione di biomassa, intesa come la somma della massa di tutti gli organismi viventi, dai batteri alle piante, agli animali, agli uomini, una quantità enorme, prodotta senza inquinare né perdere risorse. La natura riesce a produrre una quantità e una diversità di qualità (biodiversità) enormemente maggiore della quantità e diversità delle produzioni umane, senza distruggere il pianeta, senza distruggere le risorse e mantenendo un equilibrio dinamico.

La terra esiste da oltre 4 miliardi di anni e la vita da circa 3,8 miliardi. Negli ultimi 2 si è sviluppato un equilibrio che si è rafforzato grazie a processi naturali, alla base dei quali c’è la fotosintesi. Questa consiste nel trasformare due elementi molto diffusi miliardi di anni fa, la CO2 e l’acqua, in zuccheri. Gli zuccheri sono il punto di partenza della vita, fornendo energia sotto forma di cibo. La fotosintesi avrebbe potuto essere disastrosa, vista a se stante, perché produce un inquinante. Infatti consuma materie prime, acqua e CO2, produce un elemento utile che è lo zucchero, ma anche un inquinante che è l’ossigeno. L’aumento di ossigeno poteva rappresentare la fine della vita sul pianeta, sia perché favorisce l’ossidazione che distrugge le molecole organiche, sia perché, raggiunta una certa concentrazione, come in una camera iperbarica, i fulmini avrebbero incenerito tutta la biomassa presente sul pianeta. Questo non è accaduto perché si sono create delle nuove relazioni.

Da una parte la fotosintesi ha permesso alle piante di utilizzare una fonte di energia, come il sole, esterna al sistema. Secondo la termodinamica, un ciclo continua indefinitamente fintanto che esiste una fonte di energia esterna che lo alimenta e questo vale, al contrario,  anche per le fonti di energia fossili che, una volta esaurite, invece bloccano il processo. La complessità delle relazioni che determinano la vita sulla terra non dovrebbero esaurirsi fintanto che non si esaurisce il sole, che durerà per almeno altri 3 miliardi di anni, al contrario delle fonti fossili che al massimo tra 50/100 anni non ci saranno più. A chi obietta che l’energia solare non è sufficiente per le nostre esigenze, rispondo che la natura ha una produzione, in ordine di grandezza, superiore alle produzioni umane, e consuma almeno 10 volte più energia di quanta ne consumiamo noi esseri umani, eppure le piante utilizzano tra l’1% e l’1‰ dell’energia che il sole ci manda. Dire che l’energia solare è insufficiente è una vera stupidaggine: il problema è come utilizzarla.

Dopo la comparsa della fotosintesi è successo che, nel giro di mezzo miliardo di anni, gli organismi invece che venire avvelenati dall’ossigeno hanno cominciato a sfruttarlo, con un processo esattamente simmetrico alla fotosintesi, che si chiama “respirazione”. La respirazione non è altro che un modo molto efficiente per ricavare più energia possibile dagli zuccheri prodotti dalla fotosintesi: si utilizza l’ossigeno per compiere la completa trasformazione degli zuccheri in CO2 e acqua. Abbiamo utilizzato lo scarto, l’ossigeno, per sfruttare al meglio l’energia degli zuccheri, ripristinando, con la respirazione, CO2 e acqua nell’ambiente. Così non c’è esaurimento delle risorse e non c’è inquinamento. Una singola reazione sarebbe inquinante, due reazioni, cioè due complessi sistemi in relazione tra loro, in modo ciclico, evitano il problema dell’esaurimento delle risorse e dell’inquinamento.

 

Il recupero della biodiversità

 

Tutti gli organismi sono in relazione fra loro, le piante che usano la fotosintesi e tutti gli altri che respirano, attraverso una catena alimentare. Al primo anello abbiamo i produttori primari, le piante che usano l’energia solare, poi gli erbivori che usano il cibo prodotto dalle piante, quindi i carnivori che usano il cibo prodotto dagli erbivori. Tutti questi organismi scartano materiali che producono inquinamento: le deiezioni, i corpi in decomposizione, i rami, le foglie che cadono. Ci sono però altri organismi che riutilizzano la materia organica residua, senza la quale il terreno sarebbe sterile e non sarebbe in grado di alimentare le piante, che non vivono solo di zuccheri, ma hanno bisogno di trasformare i sali minerali e la materia organica disciolta nel suolo per ottenere le proteine, gli acidi nucleici, diventando poi cibo per gli erbivori che saranno cibo per carnivori.

È un ciclo continuo che si può alimentare solo fintanto che ci sarà energia solare, senza produzione di rifiuti, perché la natura ricicla grazie a questa fonte di energia. E questo ciclo funziona perché in natura abbiamo tantissimi tipi di piante, tantissime specie di animali; soltanto gli insetti sono quasi un milione di specie diverse; i carnivori sono meno degli erbivori ma sono comunque tanti. La biodiversità delle specie è condizione indispensabile per la sopravvivenza dei cicli naturali, ma anche quella interna a ogni specie è fondamentale. Se fossimo tutti identici, noi come esseri umani, e così le piante, gli insetti o qualunque tipo di animale, a ogni cambiamento ambientale, climatico o ci adatteremmo tutti o nessuno. Si potrebbe dunque interrompere il ciclo e il processo diventerebbe lineare.

La rivoluzione industriale ha cambiato le regole del gioco. Fino a quando abbiamo mantenuto, come esseri umani, una dimensione interna alle regole della Natura e ci siamo considerati in qualche modo parte della natura, l’equilibrio è stato rispettato. Quando abbiamo messo l’essere umano da una parte e la natura dall’altra, le cose son cambiate drasticamente. Abbiamo trasformato quei processi produttivi ciclici in processi produttivi industriali lineari; in una logica riduzionista, abbiamo realizzato non più una produzione per la collettività, ma una produzione per il profitto. Non si tratta più di produrre quello che serve, ma produrre sempre di più, per incrementare il prodotto interno lordo, aumentando i consumi. Di conseguenza sono necessari strumenti culturali, pubblicitari per indurre la gente a consumare sempre di più, anche se non ne ha bisogno. Diversamente il meccanismo si inceppa, così la risposta alla crisi economica attuale è quella di aumentare il Pil.

La crisi del 1929 si dice sia stata risolta con scelte di politica keynesiana. Certamente la politica keynesiana può aver contribuito, ma non avrebbe risolto il problema. La soluzione keynesiana era: aumentare il potere di acquisto dei più deboli per aumentare i consumi e rilanciare così l’economia. Una visione che dimentica che c’è un limite alle risorse; non si può continuare a prelevare là dove le risorse si stanno esaurendo, quindi questo meccanismo nel tempo non può funzionare. Una logica di crescita continua può funzionare a una sola condizione: distruggere e ricostruire, come avviene per effetto della guerra. È la Seconda Guerra Mondiale che ha permesso la ripresa economica (il cosiddetto boom), non la politica keynesiana. Oggi, come ha detto anche il Papa, siamo in guerra, la Terza Guerra Mondiale. È una guerra diffusa che interessa i fabbricanti di armi, il cui obiettivo non è la pace, ma la produzione sempre maggiore di armamenti.

La crisi attuale è una crisi economica, ma anche ambientale, sociale, politica, la cui origine risiede in quella visione meccanicista e riduzionista, che ha imposto una logica lineare in un pianeta che funziona in modo circolare. Per capire le conseguenze di questo processo, basta pensare che siamo di fronte alla sesta estinzione di massa, provocata però, a differenza delle precedenti, dall’uomo, come dice l’UNEP, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, che si occupa di biodiversità.

Un altro aspetto, oggetto di scontro con amici ambientalisti, è quello di considerare la sovrappopolazione umana come principale problema, causa dei disastri attuali. In natura normalmente non c’è sovrappopolazione di qualche specie perché l’equilibrio è dinamico. In ogni ecosistema vi è una certa capacità di carico, cioè il numero massimo di individui di una specie che può vivere in quel territorio, ed è determinata dalle risorse disponibili. Se vi sono più specie e una popolazione sottrae più risorse per sé, impedendo la vita alle altre, alla fine non avrà niente, perché ci sarà il deserto. Il problema sta proprio nel trovare un equilibrio dinamico sulla base della disponibilità delle risorse, per una popolazione di 7 miliardi di persone, che, secondo gli indicatori, non supererà i 9 miliardi di abitanti nel futuro. Quindi se il problema è se siamo in grado di sfamare dai 7 ai 9 miliardi di persone, la risposta è sì. La differenza sta nell’uso delle risorse, ovvero se usate in maniera equilibrata all’interno di processi ciclici, senza egoismi e ricorrendo al principio del dono, o se considerate una merce, e distrutte per logiche di profitto.

Solo tra le piante utilizzabili dall’uomo la biodiversità è enorme. Ci sono oltre 250 mila specie di vegetali, di cui almeno 30 mila sono commestibili. Della quantità enorme di piante offerte dalla natura, e quindi non solo coltivate, l’uomo ne ha usato come cibo alcune migliaia e ne ha coltivate varie centinaia. Attualmente coltiva poco più di cento piante, di cui 9 rappresentano il 75% della produzione di massa e 3 il 50% della produzione totale: il frumento, il mais, il riso. Ora, se qualcuno si impadronisse di queste 3 piante, condizionerebbe la vita di tutti gli abitanti del pianeta, l’economia e la politica. E questo è un processo in atto.

L’impronta ecologica misura in ettari i consumi di una popolazione, cioè la quantità di ettari di terra che ci fornisce l’acqua, il cibo, le materie prime, l’energia di cui abbiamo bisogno. Sono inclusi anche gli ettari dove vengono buttati gli inquinanti, i rifiuti. Oggi la maggior parte degli abitanti del pianeta utilizza una quantità di terra superiore a quella a loro disposizione. L’Italia ha a disposizione poco più di 2 ettari per persona e ne consuma più di 4. Gli americani ne consumano circa 12 per persona. Per trovare queste risorse l’Italia, come l’America, l’Europa, la Russia, la Cina, rapinano i paesi più poveri senza i quali non avremmo la possibilità di ottenere la crescita: né demografica, né produttiva, né distruttiva sotto forma di inquinamento. E questa possibilità di rapina è garantita dalla guerra e dagli armamenti. Tutto questo porta a quello che oggi viene chiamato overshoot day, cioè il giorno in cui abbiamo superato i limiti della natura e abbiamo consumato più di quanto in un anno i “servizi” naturali della terra possono fornirci. Attualmente il giorno orientativo dell’overshoot day è intorno al 20 di agosto. È come se una persona mettesse dei soldi in banca per vivere della rendita prodotta, ma poi incomincia a consumare il capitale, esaurendo rendita e capitale. Infatti si parla di “capitale naturale” che stiamo intaccando.

 

La rottura dell’equilibrio

 

È in atto una strategia ben precisa di appropriazione delle principali sementi coltivate. Nel corso del tempo abbiamo avuto perdite di varietà di piante da frutto, di cereali e di molti ortaggi, come è stato spiegato da Isabella Dalla Ragione. Questa perdita notevole di biodiversità agricola è dovuta, oltre che ai recenti cambiamenti climatici e all’inquinamento, soprattutto alla trasformazione dell’agricoltura avvenuta con la rivoluzione verde.

La prima grande rivoluzione umana era stata nel neolitico con la scoperta dell’agricoltura. Da allora, pur avendo l’opera dell’uomo imposto cambiamenti epocali, compreso l’aver contribuito alla scomparsa e alla desertificazione di alcune aree del pianeta, in qualche modo si rispettavano gli equilibri naturali: l’energia utilizzata era quella solare, animale o umana. L’energia umana e animale rientra nei cicli naturali, è riciclabile; la fertilità del suolo era garantita dal ciclo, che derivava dalla concimaia, alimentata dalle deiezioni degli animali allevati.

La rivoluzione verde ha rotto definitivamente l’equilibrio perché ha trasferito le logiche della produzione industriale all’agricoltura, la naturale ciclicità dell’agricoltura si è persa. Il modello di agricoltura della rivoluzione verde è un modello lineare: si prendono dall’esterno concimi ed energia e si sfrutta al massimo il suolo, che si sterilizza. Così c’è bisogno di nuova materia prima ed energia perché il campo produca ancora. Il processo lineare richiede che si acquisti da un’industria i concimi, si riduca la biodiversità (logica delle monocolture), rendendo le coltivazioni più sensibili agli attacchi di parassiti e quindi si utilizzino sempre più pesticidi, sostanze chimiche che dovrebbero impedire la comparsa di nuovi parassiti. Il pesticida (biocida) è un vero e proprio veleno che ammazza organismi nocivi alla pianta, ma non per questo, come si vuole far credere, è innocuo per altri organismi.

Con la rivoluzione verde abbiamo avuto un aumento della produttività misurata dagli economisti agrari in quintali per ettaro oppure, per un allevamento, in litri di latte per mucca. Questa misura però è sbagliata. La produttività si deve misurare in quintali per ettaro o litri di latte per mucca “a parità di input”, cioè a parità di energia e di materia prima consumata. Senza questo parametro sembra che energia e materia prima siano gratuiti, invece non è così. Anzi, devo aggiungere un ulteriore parametro, che sono gli squilibri ambientali provocati che impediscono alle generazioni future di avere ciò che è disponibile oggi. Se si considerano questi elementi non è vero che con la rivoluzione verde la produttività sia aumentata. Al contrario, la Fao assicura che, secondo questi criteri di misurazione, il massimo della produttività si ha nell’agricoltura di sussistenza, perché l’input energetico è bassissimo, si mantengono gli equilibri naturali ed è durevole nel tempo.

Il mais ibrido è un esempio di come le multinazionali affrontino il problema della produttività. Il mais ibrido è un mais che sfrutta un principio della genetica per cui, prendendo due linee pure a scarsa produttività ma completamente diverse, e ibridandole, si ha un ibrido che nasconde i difetti dell’uno e dell’altro genitore ed è, secondo il termine usato dai genetisti agrari, lussureggiante. Il risultato è vero solo in parte, perché il processo non tiene conto che spesso questi ibridi sono inadatti a molte terre, sono cioè produttivi solo a certe condizioni.

Ai tempi del neolitico la prima operazione che si faceva in agricoltura era selezionare la pianta in funzione del territorio. Quando la popolazione passò da 3/4 milioni di abitanti a decine di milioni, iniziò anche l’espansione per la conquista di nuove terre da coltivare, a partire, per quanto riguarda la nostra cultura, dalla Mezzaluna fertile, in Medioriente. Contemporaneamente, anche in altre parti del mondo, si ebbero altre espansioni, anche se più limitate, come a partire dall’area cino-indiana, da quella mesoandina e da quella africana. Iniziarono le migrazioni.

Non dobbiamo dimenticare che noi abitiamo questo territorio, l’Europa, perché vi è stata la migrazione, iniziata 10 mila anni fa, che riguarda uomini e sementi. Gli uomini si portavano le loro sementi e le riadattavano mediante una selezione che teneva conto del nuovo ambiente e non solo della produttività. Oggi non si adatta più la pianta all’ambiente, ma l’ambiente alla pianta, desertificandolo. Si eliminano le piante che fanno concorrenza alla coltivazione e ci si arroga il diritto di chiamarle infestanti. In natura non esistono piante infestanti, non esistono insetti nocivi, ogni organismo contribuisce agli equilibri e perciò è utile. Nell’equilibrio complessivo se scompaiono le zanzare molti uccelli e i pipistrelli rimarrebbero senza cibo. Eliminare le zanzare con il DDT non risolve il problema né delle zanzare, né della malaria. Estinguere in questo modo una specie è molto difficile, dimenticando poi che in natura vale una regola fondamentale: liberata una nicchia ecologica, cioè una particolare situazione all’interno di un habitat, quella nicchia, lasciata libera, viene immediatamente occupata da un’altra specie.

Il mais ibrido è stato proposto per avere un forte aumento della produttività, ma a condizione di un enorme consumo di fertilizzanti chimici di sintesi e di pesticidi, per fare piazza pulita di tutto il resto e permettere le monoculture di mais. La pianura Padana è una monocultura di mais, il centro degli Stati Uniti è una monocultura di mais, ma entrambi sono biologicamente in evoluzione verso la desertificazione.

 

La diffusione dei pesticidi

 

Faccio una breve digressione, per far capire da cosa trae origine tutto questo e perché è collegato alla guerra. Tra la prima e la seconda guerra mondiale un’industria chimica ha sviluppato dei composti, in particolare i policlorobifenili (PCB) che si usavano nelle centrali elettriche come isolanti perché non bruciavano, e quindi utili per evitare incendi. I PCB sono veleni tra i più pericolosi per l’ambiente e per l’uomo. Insieme con i PCB si producevano anche diossine e altri composti, molto aggressivi per l’ambiente e per gli esseri viventi, che sono stati pensati come armi belliche. L’industria in questione è la Monsanto, che ha prodotto l’agente “orange”, che è un derivato di questa chimica. È un defoliante che veniva irrorato per permettere di scoprire i vietcong nascosti nella foresta, con effetti disastrosi sull’ambiente e sulla salute. Finita la guerra nel Vietnam, con la sconfitta degli Stati Uniti, la Monsanto si ricicla in industria di pace e trasforma quel biocida defoliante in erbicida per l’agricoltura, secondo la logica perversa del consumismo che, per raggiungere i suoi obiettivi, deve indurre dei nuovi bisogni.

L’aumento di produttività agricola ottenuto in questo modo non è motivano dall’aumento della popolazione, perché la produzione di cibo oggi raggiunta, come sostiene la FAO, è sufficiente per sfamare da 9 a 12 miliardi di persone. E nemmeno il problema della fame nel mondo si è risolto: erano alcune centinaia di milioni i denutriti prima della rivoluzione verde, ora sono diventati quasi un miliardo. Inoltre l’aumento della produzione di cereali ha raggiunto il suo limite; per mantenere costante tale produzione, deve crescere il consumo di fertilizzanti e di pesticidi: è quella che viene definita “produzione costante a input crescenti”, cioè la negazione dell’economicità. L’unica economicità sta nel profitto che ne deriva, non certo nei risultati. Questa è stata la trasformazione del cibo da dono, a consumo, a merce.

Se il cibo è una merce e non ho soldi, posso morire di fame davanti a un supermercato pieno di cibo esposto, perché non ho la possibilità di comprarlo, a meno che qualcuno non mi faccia la carità. Non è la quantità di cibo a garantire il superamento della fame del mondo, ma l’accesso al cibo.

Nella logica produttivistica, cereali e altre piante come la soia, cresciuti enormemente, non si producono per l’alimentazione umana, ma per l’alimentazione animale. Nell’alimentazione animale si trasformano i ruminanti in consumatori di proteine in eccesso, per accelerare i tempi di produzione della carne o del latte, snaturando la loro natura fisiologica: questi animali vivono meno, vanno incontro a malattie e quindi vanno curati con gli antibiotici e altre medicine. La logica è di trasformare cibo vegetale in cibo animale che non tutti possono permettersi.

La dieta mediterranea prevede un consumo di carne nell’ordine di 15 kg l’anno, mentre attualmente gli europei ne consumano in media circa 100 kg, con eccessi maggiori degli spagnoli e dei tedeschi che, come gli americani, ne consumano circa 120 kg a testa. Per fornire a 7 miliardi di abitanti del pianeta questa quantità di carne ci vorrebbero 3 pianeti Terra per produrre i mangimi, oppure 5 pianeti Terra trasformati in pascolo. È evidente, per la capacità di carico, che non si possono alimentare 7 o 9 miliardi di persone con questo livello di consumo di carne. Ci vuole anche una solidarietà umana, dobbiamo ridurre drasticamente il consumo di prodotti animali e riportare gli animali al pascolo, ripristinando il corretto equilibrio ambientale. Se non riduciamo i consumi di prodotti animali e, in particolare, di carne, che fa male alla salute, si condannano a morte altre persone che non hanno accesso a quei cereali usati per nutrire gli animali, che invece consumerebbero volentieri.

Come già detto, in Italia ci sono aree pianeggianti, come la pianura Padana, una parte di costa delle Marche, un’area del Lazio e anche dell’Umbria, che sono zone desertificate, la cui materia organica ha raggiunto un livello così basso da non essere più in grado di produrre cibo, sono cioè improduttive, senza input esterni. Se si analizza la terra dove, per decenni, si è fatta monocoltura di mais, quella terra è trasformata in polvere, non è più terra.

Un altro dato importante è che questa agricoltura, per effetto in particolare degli allevamenti intensivi, con l’emissione di metano dei bovini, contribuisce pesantemente ai cambiamenti climatici, che riducono a loro volta la produttività agricola.

Il consumo di pesticidi ha portato ad un grave inquinamento delle acque sia di superficie che di falda. L’agricoltura moderna impone diserbanti prodotti da una multinazionale, come la Monsanto, con il Roundup o glifosate. Questo diserbante è stato recentemente riconosciuto cancerogeno dall’Agenzia Internazionale sulle ricerche sul cancro. La Monsanto si è permessa di dire che questa agenzia dell’Oms fa cattiva scienza perché mette in discussione la bontà di un prodotto chimico. Grazie ai finanziamenti che la Monsanto ha dato a tutti i presidenti degli Usa, di entrambi i poli, si è creato un meccanismo per cui tutti gli enti di controllo dell’agricoltura, dei prodotti chimici, della salute sono stati a lungo sotto controllo di ex-dirigenti della Monsanto.

Quando i prodotti usati in agricoltura si diffondono nell’aria, nell’acqua o nel suolo, alla fine si concentrano in un unico punto: gli esseri viventi che bevono, mangiano, respirano. Quando mangiamo cibo animale, concentriamo l’inquinamento già accumulato da quei viventi che diventano nostro cibo, per effetto della catena alimentare. Così i composti chimici che hanno una concentrazione pari a 1 nel suolo, diventano 10 nella pianta, 100 nell’erbivoro e 1000 o più nel carnivoro. Mangiare vegetali è meno inquinante che mangiare cibo di origine animale, che è alimentato con quei cereali inquinati.

 

La trappola degli Ogm

 

Gli Ogm sono la diretta conseguenza di questa logica. Quando la Monsanto ebbe bisogno di riciclare un prodotto bellico in prodotto agricolo, cominciò a imporre anche sementi che avevano bisogno di quei prodotti. La Monsanto acquista un po’ alla volta tutte le industrie sementiere, prima statunitensi poi anche di altri paesi, imponendo le sementi tossicodipendenti, nel senso che dipendono dai suoi prodotti chimici, in particolare dai diserbanti. Una volta le piante migliori venivano selezionate per ricavare i semi da riseminare l’anno successivo. Oggi la Monsanto, come tutte le industrie sementiere, facendo sementi ibride, che non si possono riseminare (perché produrrebbero piante di scarsa qualità), obbliga all’acquisto di nuove sementi, perché per rifare un ibrido bisogna avere le due linee pure che appartengono alla multinazionale sementiera. Già la gran parte delle sementi di mais oggi appartiene a 3 o 4 multinazionali. Ma non tutte le piante si prestavano a ottenere semi ibridi ad alta produttività, per cui era necessario raggiungere un livello di controllo ulteriore, che è il principale motivo per cui sono nati gli Ogm.

Le piante geneticamente modificate sono un esempio classico di visione riduzionista. Si pensa di risolvere un problema biologico inserendo un gene che però interagisce con tutti gli altri e con l’ambiente, quindi il risultato non è certo. Oggi l’unica ragione per produrre Ogm è trasformare, con un solo gene, una pianta non per avere funzioni naturali migliori, per essere più efficiente, ma per essere resistente ad un diserbante, prodotto dalla stessa multinazionale che produce l’Ogm.

Una pianta geneticamente modificata è una pianta, in cui è stato introdotto un promotore (cioè un attivatore dei geni) di origine virale, che obbliga la pianta ad attivare il gene, altrimenti bloccato, ma non sempre questo metodo funziona. Attualmente questo metodo ha ben funzionato per rendere una pianta resistente ad un diserbante, come il Roundup. L’85% degli Ogm, in agricoltura, è resistente a un diserbante prodotto dalla stessa multinazionale e la maggior parte degli Ogm è prodotto dalla Monsanto. Il risultato è che anzitutto chi compra la semente è obbligato a comprare anche il diserbante. Inoltre le multinazionali hanno ottenuto di poter brevettare gli Ogm prima negli USA e poi anche in Europa. Dopo un primo voto contrario del Parlamento europeo, nel 1997 è stato riconosciuto il brevetto, ignorando la norma del trattato europeo sul brevetto che impediva di brevettare organismi viventi. L’ostacolo è stato superato affermando che non si brevetta la pianta ma il metodo e il risultato. Gli azzeccagarbugli esistono per questo motivo: trovano parole che non vogliono dire niente per by passare un concetto molto chiaro.

L’agenzia internazionale per le ricerche sul cancro ha dichiarato il glifosate probabilmente cancerogeno. Buonsenso vorrebbe che fosse ritirato dal commercio. Automaticamente tutte le piante Ogm della Monsanto non dovrebbero più essere utilizzate, ma senza mangimi a base di mais e soia Ogm sarebbe difficile per la nostra agricoltura industriale produrre carne, latte, uova.

Le norme italiane prevedono regole rigide e complesse per coltivare piante Ogm e comunque è obbligatoria l’etichetta, sia per alimenti che per mangimi, ma in questo caso l’etichetta viene letta solo dall’allevatore. Per questo motivo si richiede da tempo di scrivere sull’etichetta, non solo il contenuto, ma anche il processo produttivo, con il quale si è ottenuto il prodotto di origine animale, compresi i mangimi impiegati. La quantità dei prodotti animali nei nostri supermercati si ridurrebbe probabilmente a un decimo, dato che il 90% è ottenuto con mangimi Ogm.

Oggi sono solo 4 le piante geneticamente modificate che hanno avuto un successo industriale e commerciale: soia, mais, colza e cotone. Il cotone non si mangia, la colza si usa per l’olio e soia e mais sono usati essenzialmente come alimento per animali. Nel 1950 nella pianura Padana la produzione di mais era un quarto di quella attuale, oggi è 4 volte di più ma la popolazione ne mangia un decimo rispetto agli anni ’50. Vuol dire che 39 parti vanno agli animali e solo una parte va all’essere umano perché ormai ci consideriamo “ricchi” e vogliamo mangiare carne. La polenta è diventata cibo per poveri (o per quei ricchi che vanno nei ristoranti dove si preparano piatti della cucinatradizionale).

La pianta Ogm maggiormente coltivata è la soia resistente ai diserbanti. I danni all’ambiente degli Ogm sono: perdita di biodiversità e aumento dei consumi di pesticidi, anche perché le cosiddette infestanti diventano resistenti ai diserbanti. Ma la cosa più grave è che con gli Ogm, avendo ottenuto il brevetto, si sta realizzando quel processo di privatizzazione di ciò che la natura garantiva come servizio. Le sementi non sono più della natura, non sono più di libero accesso agli agricoltori, sono proprietà privata di multinazionali, che così condizionano il pianeta.

Anche l’Italia importa soia in gran quantità. Sull’etichetta del mangime dato alle mucche per fare il parmigiano reggiano si legge: “mangime complementare per vacche da latte convenzionato, consorzio parmigiano reggiano, soia geneticamente modificata”. E questo vale non solo per il parmigiano reggiano, ma per tutti i prodotti derivati dagli animali. Siamo stati invasi da Ogm senza che nessuno ce lo dicesse, questo è il dramma.

 

Ricostruire l’armonia

 

La via d’uscita da tutto questo è avere il coraggio di tornare indietro, ma non per ricominciare a zappare la terra, non siamo contrari alla tecnologia. Si tratta di tornare indietro culturalmente, riprendendo un percorso che preveda un cambiamento di paradigma, come è scritto anche nell’enciclica di papa Francesco, in cui si parla di “conversione ecologica”. Questo termine, usato per la prima volta da Alexander Langer negli anni ’80, è nettamente diverso da “riconversione” che è semplicemente un cambiamento. La “conversione” sottintende una visione diversa, una adesione, un cambiamento di stili di vita, un cambio di paradigma che preveda l’abbandono della visione riduzionista di cui parlavo all’inizio. Riconversione vuol dire abbandonare un’economia basata sulla crescita e ristabilire un’economia in funzione dell’essere umano e non che lo renda schiavo. L’obiettivo non è produrre sempre di più ma produrre quel che serve per migliorare la qualità della vita, per migliorare le relazioni umane. Un cittadino non è felice se ha più prodotti da acquistare, o se accumula oggetti, è felice se ha buone relazioni con altri esseri umani e con la natura. Solo questo può rendere felice una persona.

Mi permetto di concludere con un concetto molto caro ad Alexander Langer: il cambiamento se ci sarà, non ci sarà perché ci viene imposto, non ci sarà perché ci siamo spaventati dei cambiamenti climatici, dei disastri, perché l’egoismo umano è più forte di queste paure. Il cambiamento si verificherà quando sarà desiderabile, cioè quando ci sarà un’adesione culturale che ci farà capire che la nostra felicità non consiste nell’accumulo di beni ma nell’avere migliori relazioni.

Breve guida alla lettura del testo e traduzione in Italiano dell’Accordo di Parigi

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A Venezia, a seguito della marcia per il clima del 29 novembre scorso, è sorto un movimento che vuole continuare a tenere alta l’attenzione sul tema del clima che ha prodotto una “Breve guida alla lettura del testo e la traduzione in Italiano del documento finale dell’Accordo di Parigi >> scarica il testo

Carlo Modonesi: Ecologia del vivere e del pensare: la cultura si mangia

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«Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia». Pare che la citazione vada ascritta all’ex-Ministro Giulio Tremonti, il quale, nell’autunno del 2010, usò forse quelle parole per colorire con un po’ di sarcasmo la sua massima più nota “la cultura non si mangia”. In una stagione in cui i tagli alla scuola, all’Università e ai beni naturali e artistici del Paese cominciavano a evidenziare segnali di rara gravità, quel sarcasmo sembrò del tutto fuori luogo.

Ciò detto, se è vero che i ministri non si giudicano mai per quello che dicono ma per quello che fanno, allora significa che la questione è seria. Come sappiamo, l’assioma “la cultura non si mangia” è stato un obiettivo programmatico messo in opera molto tempo prima che il Ministro Tremonti ne desse una formulazione in prosa così efficace. Quel refrain ha guidato le politiche di contenimento della spesa pubblica di una lunga schiera di suoi predecessori. Il togliere ossigeno alla cultura svuotando la scuola e l’Università di valori e di risorse, e il rinunciare a qualsiasi piano di conservazione dei beni naturali/artistici, sono un’antica ricetta preparata con perizia scientifica da gran parte della classe politica nazionale degli ultimi trent’anni, a danno di chissà quante generazioni di italiani. Sottesa a questa “visione” della cultura così trasversale vi è l’idea che la formazione dei giovani sia una responsabilità minoritaria delle istituzioni dello Stato, e che la cementificazione del territorio e la devastazione ambientale producano ricchezza e benessere diffuso. In realtà si tratta soltanto di alibi ideologici e, come tali, del tutto falsi. Che molti cementificatori e speculatori nazionali abbiano accresciuto in modo esponenziale le loro ricchezze grazie alle colate di cemento e alle bolle immobiliari è un dato che risponde a realtà. Ma che con il superlavoro delle macchine movimento terra sia stato prodotto benessere diffuso è una convinzione quantomeno opinabile, se non decisamente fraudolenta.

Al di là della retorica, invece, la cultura ha molto a che fare con la ricchezza di una nazione. La classe dirigente dovrebbe saperlo: se l’Italia è una Repubblica lo si deve anche alla fortuna di avere avuto una storia culturale impreziosita dalle opere di Dante, Leonardo, Michelangelo, Manzoni e dei moltissimi altri artisti, letterati, scienziati, e pensatori che hanno reso la penisola italica, già beneficiata da madre-natura per la meraviglia dei suoi territori, uno dei luoghi più interessanti e ospitali del globo. Americani, giapponesi e nord-europei lo sanno da sempre, soltanto le istituzioni e i politici italiani non se ne sono mai accorti.

Il concetto che la cultura non si mangia, e le diverse variazioni sul tema che se ne possono fare, è tradizionalmente figlio di brutali ideologie del passato che hanno pianificato le loro sciagure giocando anzitutto sullo sradicamento della cultura dal mondo reale. La rottura delle relazioni tra cultura e storia, cultura e presente, e cultura e futuro, ha sempre trascinato l’umanità in epoche oscure tanto dal punto di vista politico-economico quanto dal punto di vista umanitario. Nel romanzo di fantascienza “Fahrenheit 451” dello scrittore statunitense Ray Bradbury, da cui venne tratto l’omonimo film diretto da François Truffaut, è delineato un mondo raggelante nel quale il solo fatto di possedere dei libri costituisce un reato grave contro il potere costituito. L’unico mezzo di informazione permesso dalla legge è la televisione, che naturalmente è sotto rigido controllo delle autorità e rappresenta per la collettività la sola via (illusoria) per uscire dall’isolamento fisico e intellettuale. Il romanzo ruota intorno al problema dell’ottusità dei sistemi politici che si alimentano di un “pensiero unico” e che vigilano sulla società ostacolando ogni possibilità di riflessione e di confronto.

Altre opere importanti hanno descritto grossomodo lo stesso tipo di degenerazioni, si pensi per esempio a “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley o a “1984” di George Orwell, probabilmente scritti per denunciare l’inquietante sentenza di condanna della cultura sancita dai totalitarismi di ogni luogo e di ogni epoca. Del resto, come scordare il motto spaventoso “quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola” in voga negli anni Quaranta tra i gerarchi della Germania nazista?

La cultura è una componente importantissima della realtà in cui siamo immersi, e di fatto essa ci restituisce una parte delle nostre tradizioni, del nostro rapporto con lo spazio, del nostro modo di usare le risorse, delle nostre conoscenze scientifiche, delle nostre espressioni artistiche e letterarie: in una parola, l’insieme delle relazioni che ci rendono esseri viventi ed esseri umani. Il grandissimo biologo russo Vladimir Vernadsky coniò il neologismo “noosfera” proprio per puntualizzare gli imprescindibili risvolti ecologici della cultura umana, che di fatto si integrerebbe nelle altre due sfere fondamentali del pianeta, la “geosfera” e la “biosfera”. Ne segue inevitabilmente che la cultura è anche il nostro cibo, il che smentisce senza appello la convinzione che la cultura non si mangi.

Fino a non molto tempo fa, i contadini dell’Italia centrale, i pescatori del meridione o i montanari che vivevano nelle aree alpine costruivano le loro abitazioni tenendo conto delle relazioni con il contesto ambientale e sociale. Le loro case si integravano nel paesaggio naturale e in qualche modo sembravano completarne la bellezza, come si può facilmente verificare dalle baite stupende che ancora si incontrano nelle aree alpine, o dai trulli che punteggiano le nostre coste. Le abitazioni erano funzionali al modo di vivere ma soprattutto erano esempi fondamentali della cosiddetta “cultura materiale”. Per l’osservatore forestiero, le case costituivano probabilmente un primo segnale del rapporto con lo spazio, con il clima e con le risorse locali, indicando quindi anche il tipo di economia e le abitudini sociali. Questa sorta di artigianato edilizio che non concedeva nulla al caso, tantomeno nei suoi risvolti estetici, oggi ci parla di un rigoroso rispetto della relazione esistente tra tradizione, contesto attuale e innovazione, ovvero tra passato, presente e futuro. Era l’identificazione del giusto punto di equilibrio tra queste diverse esigenze della cultura che permetteva di intrattenere un collegamento coerente con i contesti ambientali, sociali ed economici.

In seguito, la massificazione dei consumi e delle abitudini indotta dall’industrializzazione ha stravolto la saggezza popolare che permetteva di creare economie vincolate ai contesti e che era alla base del costruire e dell’abitare di un tempo, e in pochi decenni ha spostato lo stile di vita verso uno “standard ideale” decontestualizzato e imposto dall’alto. Così ai margini delle città sono sorte le alienanti periferie che ben conosciamo: il più delle volte quartieri mostruosi, talora pericolosi, senza servizi, difficilmente raggiungibili, e concepiti unicamente come dormitori per cittadini di serie B. Nessuna persona sceglierebbe di andare a vivere in questi quartieri se non per… cause di forza maggiore. Gli architetti che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso progettavano questi quartieri erano professionisti colti, preparati, spesso ricchi, ma poverissimi di quella cultura materiale e di quel “senso del contesto” che caratterizzavano i manufatti dei pescatori dell’Italia meridionale o degli agricoltori delle Alpi.

In questo inizio del terzo millennio, il male civile dominante si chiama mercificazione, o, se si preferisce, crescente tendenza degli apparati burocratici-politici-finanziari globali a trasformare tutto in “merce da vendere nel più breve tempo possibile”. In modo del tutto artificiale, e attraverso decisioni meditate sempre in un altrove virtuale e distaccato dal mondo reale, vengono elaborati comodi alibi ideologici per rendere socialmente desiderabili stili di vita privi di qualsiasi raziocinio. Nei paesi più ricchi, il capitalismo finanziario senza regole che ha seminato mercificazione in ogni angolo della Terra si fonde con una concezione profondamente classista della struttura sociale e con un uso insostenibile dei beni comuni.

Nel frattempo, un’imponente macchina mediatica genera continuamente nuovi bisogni e desideri per aumentare la velocità e l’intensità dei consumi. Soltanto il potere e la vittoria con qualsiasi mezzo nella “competizione sociale” (nel senso più aderente al darwinismo sociale ottocentesco di Herbert Spencer) aprono la strada verso il successo individuale; mentre la creatività, le buone relazioni, e il semplice “sapere” e “saper fare” in realtà contano pochissimo. Individualismo sfrenato e stereotipi di basso livello diventano mezzi a disposizione dei grandi interessi di un mercato privo di competenza morale e governato da oligopoli, gruppi lobbistici invisibili, cinismo speculativo, banche spregiudicate, imprese di rating, politici corrotti e organizzazioni criminali, che, nella totale vacanza di un controllo politico istituzionale, fanno il bello e il cattivo tempo designando di fatto le sorti di persone, comunità e intere nazioni.

Alla fine, tale sistema fondato anzitutto sulla crescente e rapida produzione di denaro per pochi privilegiati, e in secondo luogo sul suo uso a fini di potere, risponde unicamente a se stesso, come se fosse circoscritto a una realtà “altra”. Intanto “le esternalità”, ossia la gigantesca scia di macerie sociali e ambientali che è stata prodotta, avvelena la convivenza civile e le risorse naturali. Il tutto, senza alcuna possibilità di individuare un responsabile o un gruppo di responsabili in carne e ossa. Lo scenario attuale in sostanza delinea un mondo che semina povertà e umiliazione, dove pagano soltanto coloro che non hanno responsabilità, e che, senza nessun pudore, ha persino il cattivo gusto di presentarsi come la “via naturale verso il progresso”. In altre parole, un mondo guidato dalla follia, dove qualsiasi espressione di cultura e di economia reali tende ormai a essere liquidata come un inutile fastidio. Una tale concezione del connubio tra denaro e potere distrugge contesti, significati, valori, bellezza, diritti: a farla breve, distrugge relazioni. Persino la pratica scientifica, un tempo “arte” o “mestiere” per semplici appassionati, oggi viene sempre più spesso chiamata a ubbidire all’ideologia del denaro. Per futili motivi partoriti esclusivamente da questa ideologia, una parte importante della nostra conoscenza scientifica potrebbe restare intrappolata nei rigidi schematismi designati dalle regole della crescita economica. Ma una scienza di questo tipo, relegata al ruolo di ancella del PIL e svincolata da ogni relazione con il mondo, sarebbe una scienza incapace di produrre contenuti e vera innovazione.

Il tentativo di mercificare ogni aspetto della realtà, dai bisogni primari ai desideri più futili, e di spingere quindi la cultura nel dominio astratto dell’auto-referenzialità, sarebbe una guerra contro il buon senso e contro noi stessi. La cultura è da sempre uno strumento straordinario per affrancare la nostra esistenza dalle tante miserie di cui l’animo umano è capace. E qualsiasi operazione politica per eliminarla, come nella storia della Germania nazista, o per ridurne la rilevanza sociale, come nella fantascienza di “Fahrenheit 451”, è destinata a partorire un totalitarismo svincolato dal mondo e obbligato a nascondere la realtà sotto una coltre di negazionismi e di violenze. In passato, le ideologie che hanno fomentato l’odio per la cultura e per la democrazia hanno partorito tutto questo, ossia una bruttezza disumana, ma almeno adesso dovrebbero insegnarci qualcosa.

Deve essere chiaro che tra cultura e denaro non c’è alcuna incompatibilità, anzi, le due cose insieme possono trovare un’intesa virtuosa e catalizzare grandi benefici per la collettività. Ma nel mezzo deve continuare a esistere un nesso molto forte con il mondo reale, fatto di luoghi, di tempi, di persone. Continuare a misurare il benessere delle nostre economie con il PIL, e insistere nel quantificare il valore della cultura unicamente con il metro della “crescita” (si legga “la cultura non si mangia”) – peraltro, ben sapendo che abitiamo un mondo di risorse finite – significa incamminarci verso l’auto-distruzione. E a nulla vale il tentativo di rendere accettabile questa scelta suicida attraverso una propaganda miope, come tanto marketing, che si ostina a negare l’esistenza di relazioni fisiche e biologiche che da sempre regolano la vita sul pianeta Terra.

Una “cultura falsa”, generata unicamente dall’uso del denaro come fine anziché come mezzo, e deprivata del suo ruolo autentico nel contesto sociale, va combattuta energicamente. La sgradevole alternativa sarebbe rassegnarsi a vegetare in una “bolla” terrificante spacciata per il suo contrario, ossia un mondo giusto, libero, prospero. Si tratterebbe infatti di un incubo, cioè di una percezione effimera della realtà, perché deformata dagli stessi surrogati che purtroppo già da tempo conosciamo bene: consumi senza limiti di ogni genere di merci, inseguimento forzato di mode giovaniliste, abuso crescente di anti-depressivi, ricorso smodato alle relazioni virtuali, tendenza a connotare la fisicità del corpo come essenza dell’identità personale… e altre false panacee.

La “cultura vera” invece svolge un ruolo ecologico importantissimo, perché ci obbliga a misurarci continuamente con il nostro “milieu”, vale a dire con tutto ciò che abbiamo intorno, e a regolarci di conseguenza. Gregory Bateson, uno dei più grandi antropologi del secolo scorso, direbbe probabilmente che dovremmo fare una lunga immersione “nell’ecologia della mente”. In effetti, è soltanto una diversa ecologia del vivere e del pensare che può aiutarci a uscire dalla crisi e dal dramma di questo momento storico. E deve essere chiaro che una tale transizione cognitiva non solo è possibile, ma porterebbe con sé promesse gravide di novità entusiasmanti.

Una proposta dalla Conferenza di Budapest: la decrescita come progetto politico?

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[da Comune-info] Strade, piazze, università, spazi sociali, culturali e di economia sociale: a Budapest la quinta Conferenza internazionale sulla decrescita ha mostrato non solo che quello della decrescita è un movimento sociale e accademico che non smette di crescere, ma che esistono già tanti modi diversi di vivere che rifiutano il dominio del profitto. Si è discusso di energia e di cibo, di genere e di conflitti ambientali, di rapporti tra il nord e il sud del mondo e di urbanistica, ma anche di migrazioni, di reddito di cittadinanza e di movimenti sociali. Per questo politica e media che pensano alla decrescita ancora come recessione sembrano sempre più ridicoli.
di Silvio Cristiano (Università Iuav di Venezia), Viviana Asara (Vienna University of Economics and Business), Federico Demaria (Universitat Autonoma de Barcelona), Giacomo D’Alisa (Universitat Autonoma de Barcelona), Barbara Muraca (Oregon State University)

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Nelle ultime settimane, mentre l’Istat pubblicava le proiezioni al ribasso del Pil italiano, diversi media lanciavano l’allarme della stagnazione, e alcuni – più o meno consapevolmente in errore – si riferivano allo spettro della decrescita. Eppure, con beffardo tempismo, proprio in quei giorni si stava concludendo con successo a Budapest la Quinta Conferenza Internazionale sulla Decrescita per la Sostenibilità Ecologica e l’Equità Sociale, un evento che speriamo possa fornire lo spunto per chiarire e riflettere sul significato della parola “decrescita”, tanto discussa all’estero quanto troppo spesso fraintesa e bistrattata in Italia.

Dalla Francia alla Catalogna, dalla Germania agli Stati Uniti, dal Canada all’India, chi parla di decrescita – né “felice” né “infelice” – invoca non il contrario della crescita del prodotto interno lordo, bensì un approccio completamente alternativo al dogma della crescita-ad-ogni-costo.

Quella di Budapest è stata la quinta edizione di un ciclo di conferenze che dal 2008, dopo Parigi, Barcellona, Venezia, Montreal e Lipsia, offrono il contesto adatto per discutere e scambiare risultati scientifici ma anche “buone pratiche” all’interno di un movimento sociale-accademico che non smette di crescere. Dal 30 agosto al 3 settembre, a Budapest sono affluiti oltre seicento tra accademici e attivisti provenienti da tutti i continenti, mentre in città in migliaia stavano animando la prima “Settimana della decrescita” per le strade, negli spazi sociali, culturali e di economia sociale che a Budapest hanno dato vita a una serie di esperienze umane e politiche basate sul vivere la società in un modo altro, al di fuori della logica del profitto. Perché uscendo dalla nostra penisola il concetto di decrescita è piuttosto e innanzitutto una proposta politica per affrontare le sfide dei cambiamenti climatici e della giustizia sociale e ambientale, ben diversa quindi da quell’attitudine più o meno naif con la quale viene spesso liquidata in Italia. Nella cinque giorni ungherese è stato ribadito come la decrescita sia prima di tutto un tentativo di ri-politicizzare i discorsi sulla sostenibilità, concetto troppo spesso distorto nelle sue declinazioni di “crescita verde”, “economia verde” o “sviluppo sostenibile”, e affidato al mito di una maggiore efficienza tecnologica e mercificazione della natura, a mascherare il fatto che una crescita infinita, oltre che non sostenibile, non è neanche fisicamente possibile su un pianeta finito.

Nella sessione introduttiva della conferenza, Federico Demaria (ricercatore dell’Università Autonoma di Barcellona e del collettivo accademico catalano Research & Degrowth) ha domandato alla platea se la decrescita possa costituire “un progetto politico di sinistra per una trasformazione socio-ecologica della società”. Come ha spiegato Barbara Muraca (professoressa all’Oregon State University), la crescita ha ormai esaurito la sua funzione di “stabilizzazione dinamica della societá” (concetto caro ai sociologi) o di “pacificatore sociale” che aveva un tempo nelle socialdemocrazie europee. La dipendenza della nostra società dalla crescita in quello che ormai anche il Fondo Monetario Internazionale ha dipinto come uno scenario di “stagnazione sistemica” sta minando le vere basi di riproduzione socio-economica, politica e culturale delle nostre società contemporanee. I limiti della crescita non sono solo di tipo ecologico, ma anche sociale e culturale.

La conferenza di Budapest ha affrontato un vasto spettro di tematiche: si è discusso di energia e di produzione alimentare, di stato sociale e di questioni di genere, di conflitti ambientali e di rapporti tra il nord e il sud del mondo, di urbanistica e di alternative post-capitaliste, di reddito di cittadinanza e di movimenti sociali. Nella città che esattamente un anno fa chiuse la stazione ferroviaria di Keleti per chiudere ai profughi di guerra le porte della fortezza Europa, si è discusso anche di migrazione denunciando i respingimenti.

Qualcuno ha ravvisato nei discorsi sulla decrescita una possibile strada verso il processo di ricomposizione della sinistra, pur all’interno delle varie diversità, come notato da Mauro Trotta in una sua recensione del saggio “Vie di fuga” di Paolo Cacciari (Marotta&Cafiero ed., qui acquistabile a 1 euro) apparsa sulle pagine del manifesto. Una strada che a sinistra potrebbe effettivamente valere la pena se non altro di discutere in modo ampio e consapevole (e, dopo buoni accenni e qualche svista, per la sua storia e il suo impegno presente invitiamo anche lo stesso manifesto ad ospitare un dibattito sulle sue pagine).

Dopo il successo delle sue dieci edizioni, l’imminente pubblicazione in italiano del volume “Decrescita: un vocabolario per una nuova era” (a cura di G. D’Alisa, F. Demaria e G. Kallis per Jaca Books) con contributi di più di cinquanta autori e la significativa prefazione di Luciana Castellina, potrebbe costituire un prezioso punto di partenza in questa direzione. Occorre chiarire che la decrescita non significa recessione o stagnazione (leggi anche l’articolo di Serge Latouche Diventare atei della crescita e Slump. La crescita non tornerà mai più di Franco Berardi Bifo), ma una proposta per il necessario progetto di riforma radicale delle nostre società contemporanee e delle loro istituzioni fondanti, che possa far fronte alla crisi multidimensionale (ambientale, politica e economica) che stiamo vivendo.


VIII CONVEGNO E RADUNO INTERNAZIONALE Economia della Felicità Domenica 2 ottobre

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Per la prima volta in Italia si terrà l’VIII edizione della conferenza internazionale per ripensare il sistema globale verso economie locali al servizio delle persone e del pianeta.

 

In occasione della Giornata della Nonviolenza, si terrà a Firenze il 2 ottobre 2016, al Teatro Verdi, la Conferenza Internazionale “L’Economia della Felicità”. L’ evento è organizzato da Local Futures – Economics of Happiness, organizzazione non profit impegnata nel ripensamento degli attuali modelli di pensiero e nella tutela della diversità culturale, e Mani Tese, ONG impegnata da oltre cinquant’anni a contrastare la fame e gli squilibri Nord/Sud del mondo.
La conferenza italiana rappresenta l’ottava di una serie di fortunate edizioni dell’International Economics of Happiness Conference svoltesi in precedenza in Australia, USA, India, Korea, Inghilterra. Un vero e proprio movimento a livello internazionale per ripensare il significato e gli effetti negativi della globalizzazione e per esplorare le alternative della decrescita e della localizzazione. Helena Norberg-Hodge, autrice del libro Ancient Futures tradotto in 42 lingue e regista del famoso e premiato documentario “L’Economia della Felicità”, è l’anima di questo movimento culturale. E’ considerata tra le 8 attiviste ambientali più importanti al mondo, vincitrice del Right Livelihood Award e del Goi Peace Award.
“Ogni governo ha sostenuto le grandi banche, i grandi business e le corporation internazionali a scapito delle economie nazionali, regionali e locali – ha dichiarato Helena Norberg-Hodge – E questo è il fulcro di quello che conidero sbagliato. Dobbiamo far sì che gli affari e le banche siano sottoposti a un genuino controllo democratico e subordinati ai limiti ecologici. Le economie locali ricostruiscono le nostre connessioni, i solidi legami tra persone e tra persone e mondo naturale. E sono proprio queste connessioni che sono essenziali non solo per il nostro vero benessere ma anche per la nostra sopravvivenza!”
Durante il convegno si discuteranno e condivideranno le strategie necessarie per allontanarsi da un’economia della crescita guidata dalle multinazionali e muoversi verso economie locali al servizio delle persone e del pianeta. L’evento sarà anche un’occasione per scoprire le iniziative che hanno luogo in tutto il mondo per riappropriarsi delle economie, comunità e ambienti naturali.
“L’economia della felicità” rappresenterà inoltre l’avvio, anche in Italia, di una rivoluzione culturale che ha nel manifesto l’Alleanza Internazionale per la Localizzazione e l’Economia della felicità i suoi principi di base.

Agricolture sostenibili per comunità solidali Decrescita Giustizia climatica Sovranità alimentare

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Con la partecipazione di:
Lisa Baldi, Jean Pierre Berlan, Francesca Bigliardi, Davide Biolghini, Zoubida Charrouf, Luca Colombo, Marco Deriu, Chiara Fornari, Mario Giampietro, Fausto Gusmeroli, Gianfranco Laccone, Francesca Marconi, Carlo Modonesi, Silvia Perez-Vitoria, Lucia Piani, Gianni Tamino.

Ripensare il sistema agroalimentare significa rispondere a sfide cruciali quali la sostenibilità e la salute, ma anche confrontarsi con le istanze portate avanti in questi anni dai movimenti popolari in tutto il mondo. Temi come la giustizia ambientale e climatica, la sovranità alimentare, la rilocalizzazione e l’autonomia nei processi di produzione, la reinvenzione di pratiche economiche cooperative e solidali, la prospettiva di una decrescita consapevole, ci invitano ad ampliare lo sguardo e sviluppare visioni integrate e complesse. Occorre tenere insieme locale e globale, difesa delle specificità territoriali e attenzione ad un contesto sociale in continua trasformazione che deve ripensare il senso della comunità, della democrazia e della solidarietà.

 

Lunedì 28 agosto h.15.00-18.30

 

Introduzione e moderazione

Marco Deriu, Università di Parma, Associazione per la Decrescita

Coltivare la sostenibilità e la salute

Gianni Tamino, Biologo e ambientalista, Università di Padova

Jean Pierre Berlan, Agronomo ed economista, membro del Consiglio Scientifico di Attac

Carlo Modonesi, Biologo, esperto di ambiente e salute pubblica Università di Parma – ISDE Italia

Mario Giampietro ICREA Research Professor, Universitat Autònoma de Barcelona (UAB).

Coltivare la diversità biologica e culturale

Fausto Gusmeroli, Fondazione Fojanini di Studi superiori di Sondrio, e docente presso l’Università degli Studi di Milano

Zoubida Charrouf, Facoltà di Scienze dell’Università Mohammed V di Rabat – Marocco

Chiara Fornari, Kuminda – Associazione cibo per tutti

 

Martedì 29 agosto h.9.00-12.30

 

Introduzione e moderazione

Francesca Bigliardi, Associazione cibopertutti – Kuminda

Coltivare l’autonomia e la creatività sociale

Silvia Perez-Vitoria, economista, sociologa e documentarista

Davide Biolghini, Forum Cooperazione e Tecnologia, Desr Parco Sud Milano

Francesca Marconi, Des Parma

Lisa Baldi, Ass. Parma Sostenibile, Mercatiamo – Parma

Coltivare comunità e politiche solidali e democratiche

Luca Colombo, Segretario Generale Firab – Fondazione Italiana Ricerca Agricoltura Biologica

Lucia Piani, Docente di Valutazione ambientale e processi di decisione, Università degli Studi di Udine; Forum dei beni comuni e dell’economia solidale del Friuli Venezia Giulia

Gianfranco Laccone, Agronomo, Ministero del lavoro e delle politiche sociali

 

L’ingresso è libero

Per chi lo desiderasse è possibile prenotare un buffet per il pranzo di martedì 29 agosto a 15,00 euro mandando una mail entro il 22/8. Sarà comunque attivo il servizio bar.

 

Per info e contatti:

marco.deriu@unipr.it

 

CORSO DI FORMAZIONE Verso una società della parsimonia e del benessere

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Il corso è aperto a tutti coloro che desiderano acquisire strumenti per una valutazione critica dell’attuale modello di sviluppo liberista e per conoscere i principi fondativi della bioeconomia e della decrescita. L’obiettivo è sollecitare un ragionamento sulla complessità dei sistemi sociali ed ecologici e sulla necessità di studiare proposte in grado di rispondere all’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Il liberismo non è stato in grado di portare vero benessere, se non materiale e non per tutti. Fondandosi su competizione e crescita illimitata, ha favorito la marginalizzazione dei più deboli e la depredazione del pianeta e sembra del tutto inadatto a fronteggiare le sfide del futuro.

>> VOLANTINO DELL’INIZIATIVA link >>Depliant

Sede
Morbegno, Casa delle associazioni, Via Morelli.
Orario
Sabato, dalle ore 9,15 alle ore 13.

Programma
05 maggio – La sostenibilità sociale
Definizione
La diseguaglianze e le diverse forme di disagio sociale
Indicatori e sentieri alternativi nella ricerca
di “una buona vita”
Relatore: Marco Deriu

12 maggio – La bioeconomia
Limiti del pensiero neoliberista
Il pensiero di N. Georgescu Roegen
La teoria della decrescita
Relatore: Mauro Bonaiuti

19 maggio – La sostenibilità ambientale
Definizione
Gli indicatori di impatto e il bilancio ecologico
Ambiente e salute
Relatori: Fausto Gusmeroli – Carlo Modonesi

26 maggio – Le economie non di mercato
Uscire dall’ideologia del mercato
Le tre sfere di Polanyi
Esperienze e pratiche di economia sociale e solidale
Relatore: Mauro Bonaiuti

09 giugno – Dibattito con tutti i relatori su
domande e argomenti suggeriti dai partecipanti

Iscrizione
Il corso è a numero chiuso e comporta una quota
d’iscrizione di euro 50, ridotta a euro 20 per disoccupati e studenti.
La domanda va inoltrata all’indirizzo di posta elettronica decrescitalombardia@gmail.com
inoltre è necessario che nella domanda vengano fornite le seguenti informazioni:

COGNOME E NOME
DATA E LUOGO DI NASCITA
INDIRIZZO
NUMERO DI TELEFONO

il richeidente deve specificare se è:
OCCUPATO/A (eventualmente aggiungere l’attività lavorativa).
STUDENTE
DISOCCUPATO
PENSIONATO
Alla domanda seguirà una risposta con le indicazioni per il versamento.

Il corso è organizzato dalla Sezione Lombarda dell’Associazione per la Decrescita, con il Patrocinio del Comune di Morbegno.
Partner: Valtellina nel Futuro, CSV Monza Lecco Sondrio, Centro di Etica Ambientale

Ecologia del Desiderio

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Antonio Cianciullo è uno dei giornalisti esperti di ambiente più noti in Italia. Grazie a lui e tramite “la Repubblica” il grande pubblico è venuto a conoscenza dei gravi problemi ecologici del nostro pianeta (gli “Atti contro natura”, come recitava il titolo di un suo libro Feltrinelli del 1992). Ora, Cinciullo scrive un nuovo volume per il prezioso catalogo di libri di Aboca (la nota azienda di prodotti di erboristeria e per la salute di Sansepolcro), Ecologia del desiderio. Curare il pianeta senza rinunce, (Aboca, 2018, pp.197, 15 Euro) che riprende molte delle principali criticità ecologiche che non hanno trovato risposte adeguate: cambiamenti climatici con conseguenti migrazioni ambientali e guerre per l’acqua, inquinamenti, cibo spazzatura con conseguenti malattie come l’obesità e il diabete, crescita demografica e inurbamento, crollo della fertilità dei suoli, racket dei rifiuti, oceani di plastica, iperconsumo di risorse primarie naturali…. Tanto che l’autore giunge all’amara considerazione che l’ambientalismo – nonostante le innumerevoli prove delle sue ragioni e conferme delle sue previsioni – non è riuscito ad incidere né nelle alte sfere della politica, né ad entrare in sintonia con “la pancia dell’elettore” [12].

Come non essere d’accordo con lui! Ma sui motivi di tale esito negativo, individuati da Cianciullo “dopo un lungo confronto sulle difficoltà in cui naviga l’ambientalismo”, c’è da rimanere onestamente sbigottiti. Le sconfitte sarebbero causate dal modo sbagliato di porsi di una certa “parte dell’ambientalismo” [55] e dai “fan della decrescita” [60] che avrebbero dipinto uno scenario di futuro catastrofista e privo di speranza. Gli ambientalisti sono apparsi come “profeti di sventura”, “notai dei disastri”, “piagnoni”, “seguaci di Savonarola”. Dei veri “bischeri” [30] (la definizione è rubata ad Ermete Realacci, past-president di Legambiente) che hanno trasmesso un “immaginario solo negativo”, hanno veicolato una “una prospettiva terrorizzante” e “venduto solo paura” [14-15].

Le loro proposte, poi, sono state “condite con la spezia amara della rinuncia” [20] e “avvolte da un packaging manicheo”, tanto da far credere che la riconversione ecologia avrebbe innescato un “ciclo pauperista” [21]. Un vero disastro, insomma, derivante non solo dalla scelta di forme comunicative sbagliate (le persone impaurite non accrescono la consapevolezza, ed è vero), ma dalla stessa idea di umanità che le sottende. Questo tipo di ambientalismo, infatti, non terrebbe conto delle “pulsioni arcaiche” [44], irrazionali e inconsce dell’essere umano – studiate dalla neuro- psico-economia del premio Nobel Daniel Kahneman. Perciò: “La consapevolezza del rischio non è sufficiente [a cambiare orientamenti] se la voglia di sfondare il limite, di oltrepassare il confine segnato momento per momento dalla natura, diventa una molla non controllabile, una pulsione che spinge l’azione verso mete che la ragione aveva scartato” [26]. Insomma: “Il desiderio di migliorare superando sempre nuovi ostacoli” farebbe parte dell’antropologia dell’homo sapiens. E tale desiderio sarebbe lo stesso che ha spinto nel Seicento “all’ampliamento delle conoscenze europee” e all’“allargamento degli orizzonti come acquisizione di meraviglia e sorgente di ricchezza” [38].

Secondo Cianciullo, progresso, sviluppo, ricerca del benessere, desiderio senza rinunce non sono comprimibili. Questa interpretazione dei fallimenti dell’ambientalismo presenta più di una falla. Per prima cosa è davvero difficile ascrivere all’ambientalismo più critico una egemonia nella comunicazione. Non mi pare che sia rimasto molto in giro della radicalità anticapitalista originaria dei Grünen anni ’80 e nemmeno dell’antispecismo della deep ecology. Come dimostrano proprio le annate di “la Repubblica”, non mi pare, al contrario, che l’ambientalismo compatibilista, ben incardinato nelle imprese della greenwashing, non abbia avuto modo di dispensare le sue ricette, fondare le proprie mega associazioni, eleggere parlamentari, nominare ministri. A cominciare da Giorgio Ruffolo, Carlo Ripa di Meana, Edo Ronchi, ora presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, che proprio in questi giorni ha pubblicato La transizione alla green economy, Edizioni Ambiente. Una ennesima promozione delle imprese e della finanza green.

La seconda falla interpretativa in cui incorre Cianciullo è naturalizzare l’antropologia dell’homo oeconomicus. Che – secondo molti altri studiosi – non è determinato dall’“imprinting della specie” [33] che lo spingono all’individualismo proprietario, ma da una cultura predatoria, da un’idea del dominio e dell’assoggettamento della natura coltivata ed enfatizzata nell’era del “capitalocene”, per usare la categoria di Jason W. Moore. Tra gli studi di antropologia, di sociologia e di storia economica che Cianciullo cita non c’è nemmeno Marshall Sahlins che bene descrive l’“idea occidentale erronea e perversa di natura umana”, quella che “sta mettendo a repentaglio la nostra stessa esistenza”. Né altri sommi autori del pensiero critico dello sviluppo e del progresso presunto “universale”. Pensiamo a Gilbert Rist o a Vandana Shiva, a Alain Caillé o a Carolyn Merchant. Oltre a Latouche.

Cianciullo incappa in una terza incongruenza nel non spiegarci come mai la proposta dello Sviluppo Sostenibile, da lui preferita e condivisa da schiere di leder politici e uomini di affari (vedi il World Business Council for Sustainable Development), nonostante 40 anni di summit, protocolli, convenzioni, agenzie, piani d’azione e ricchi finanziamenti non abbia raggiunto risultati soddisfacenti. La formula magica dello Sustainable Development fu coniata alla conferenza di Stoccolma sull’Ambiente umano nel lontano 1972 ed adottata dall’Onu nel 1988, con la Commissione Bruntland. Ribadita innumerevoli volte fino nella formulazione degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, adottata da 193 stati a New York nel 2015. Sono queste – a mio avviso – le grandi promesse disattese che andrebbero denunciate e accuratamente indagate. Secondo Cianciullo gli affossatori delle politiche dello Sviluppo Sostenibile sono solo le “lobby dei [combustibili] fossili” che corrompono, manipolano e impediscono il diffondersi delle tecnologie green. La elezione di Tramp né è una dimostrazione. La critica di Cianciullo non raggiunge mai il sistema socio-economico nel suo complesso. Non mi pare che in tutto il libro compaia la parola “capitalismo” et similia: società di mercato, economia della crescita, neoliberismo… .

Per lui le cause dei disastri ambientali non risiedono nelle logiche e nei meccanismi strutturali della società dominata dalla ragione economica e del denaro su ogni altro fattore produttivo, ma solo negli eccessi di prelievi di materiali non rinnovabili. Un fenomeno che sarebbe tecnicamente correggibile, grazie alle innovazioni tecnologiche già disponibili e a correttivi fiscali del mercato (incentivi/disincentivi) che i decisori politici potrebbe già mettere in essere, anche senza introdurre la carbon tax, per non allarmare gli investitori. Cinaciullo descrive una lunga serie di buone pratiche nell’uso dell’energia solare, nei trasporti, nell’edilizia, nella logistica e così via, nell’ambito della teoria dell’“economia circolare”. Tutto ciò starebbe a dimostrare che “la soluzione è a portata di mano” [59]: “Ormai esiste un progetto globale per uscire dalla gabbia del limite: una possibilità di crescita sociale ed economica che si gioca all’interno dei confini dettati dagli ecosistemi” [52]. La quadratura del cerchio è possibile, si chiama de-coupling: sganciare la crescita del valore economico delle merci prodotte e vendute (il Pil) dalla estrazione di materiali non rinnovabili. Le tre “p” (profit, people, planet) non sono antinomiche, ma integrabili. Win-win solution. Come è scritto nella Strategia nazionale per lo Sviluppo Sostenibile del passato governo è possibile integrare business e obiettivi di sostenibilità. Il rispetto dei vincoli ecosistemici è inteso come una variabile che dipende dallo sviluppo di tecnologie appropriate (a basso impatto) che a loro volta dipendono dalla capacità di investimenti delle industrie orientate alla responsabilità sociale e ambientale. I fondi finanziari verdi ed etici, opportunamente certificati, risolveranno ogni problema.

Il denaro non manca, assicura Cianciullo, e quello investito in green rende meglio e occupa più persone. Non c’è motivo di disperarsi, quindi, né di invocare inquietanti fuoriuscite dal sistema capitalistico – suggerisce il nostro autore -: le tecnologie e il mercato, se ben guidati, sono in grado di risolvere ogni problema ecologico. “La parte più dinamica dell’economia si è messa in moto cominciando a correre per piazzarsi meglio nel luogo in cui crescerà il mercato nei prossimi decenni: le energie pulite, l’efficienza, il recupero dei materiali” [53]. Bisogna solo “accelerare i tempi e guadagnare consensi” nell’opinione pubblica [54]. Cianciullo cita Aldo Bonomi sulle smart land: “Un caso di capitalismo che incorpora il limite ambientale nel suo processo di accumulazione e ne fa il motore di un nuovo ciclo” [165]. Grazie alla green ecology il capitalismo si fa eco- friendly, naturale, oltre che popolare, democratico e umano.

Mentre invece c’è chi rema contro – scrive Cianciullo – e rende tutto più difficile: “Una parte dell’ambientalismo ha sottolineato solo l’aspetto negativo del limite [biofisico del pianeta] facendone una barriera ideologica non negoziabile e accumulando sconfitte mediatiche perché, in fondo, a nessuno piace sentirsi ristretto” [55]. L’allarme è diventato “psicologicamente insostenibile” [143] provocando la “rimozione del tema dell’aumento del rischio ambientale” [187] e un “impatto emozionale” controproducente [151]. Perché “grande parte dell’umanità non è disposta a rinunciare”[152]. Meglio allora essere più ottimisti: “alimentare la speranza collettiva” [154], essere propositivi. Anche le zucche usate per la festa di Halloween possono essere riciclate in biocarburanti [158], come i fondi del caffè, i pneumatici bucati e quant’altro. Servono “emozioni ricostituenti” [160], un “marketing vincente” [196], accattivante, positivo.

Tutto vero. Ma va capito come mai noi si sia ancora alla mercé delle “lobby fossili”. Al contrario di ciò che pensa Cianciullo la causa non è l’alleanza spuria tra Trump e gli ambientalisti più radicali, ma la mancanza di una visione di società credibile e desiderabile, più corrispondente ai bi-sogni dell’umanità. Cioè, una società davvero diversa da quella che conosciamo. Ci manca anche l’indicazione di come attivare e praticare concretamente un processo di trasformazione dei rapporti di produzione, scambio e fruizione dei beni e dei servizi generati dalla cooperazione sociale. Un processo dove sostenibilità ed equità, condivisione e solidarietà siano posti alla base di un nuovo patto sociale planetario. Chiamiamolo eco-umanesimo o un bio-socialismo. Solo così potrà farsi strada un’altra economia che riconosca e rispetti non solo i valori monetari, ma anche quelli ambientali, relazionali, umani fuori mercato. Fino ad oggi, in questa ricerca, le formule dello Sviluppo sostenibile e, ancor meno, dell’Economia circolare non ci hanno regalato forti emozioni.

Evidence-based science or science-based evidence? The GM crops between false myths and ecological systems

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Ancora oggi vi è una sostanziale mancanza di prove consolidate sugli effetti ambientali delle colture geneticamente modificate (GM). Ciò è dovuto principalmente a una lunga serie di distorsioni che caratterizzano gran parte della produzione scientifica su questo argomento. Il risultato è che l’impatto reale delle colture GM resta in gran parte incompreso e persino negato a priori, soprattutto dai sostenitori delle colture GM e dalle aziende agroindustriali. Nel presente articolo vengono affrontate alcune questioni relative all’impatto delle colture GM, con particolare riferimento al mais, che di recente è stato oggetto di una rassegna scientifica decisamente poco attendibile. A oltre vent’anni dai loro esordi commerciali a livello globale, le colture GM destano ancora un acceso dibattito sia all’interno della comunità scientifica sia nell’opinione pubblica: un segno inconfondibile del fatto che in questa materia c’è da registrare non solo un’insufficienza di dati scientifici affidabili, ma anche un’incapacità delle istituzioni internazionali di utilizzare correttamente l’incertezza scientifica nell’elaborazione della decisione politica.    

L’ articolo scritto da Carlo Modonesi e Fausto Gusmeroli è scaricabile in allegato.

Gianni Tamino su Alex Langer (2): La terra in prestito dai nostri figli. Biodiversità e clima. La responsabilità delle politiche globali e di virtuose pratiche locali

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In questi mesi ho notato molte analogie tra quanto scritto da Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si” e vari articoli e interventi di Alexander Langer: si pensi alla “conversione ecologica” (capitolo VI.III), termine utilizzato da Alex già dalla metà degli anni ’80, o “decrescita”, termine oggi molto utilizzato (nei libri di Serge Latouche e dai movimenti presenti in varie parti del mondo che si rifanno alla teoria della decrescita), citato anche da Francesco nel paragrafo 193, ma anticipato da Langer nel 1992[1] (seppure con la variante grafica “de-crescita”).

Trovo particolarmente interessante il riferimento alla terra, che ci è data in prestito dai nostri figli: nell’enciclica vi è una frase, al paragrafo 159, tratta da una lettera pastorale dell’episcopato portoghese del 2003 (L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva), ma Alex utilizza questo concetto già nel 1989[2] (“la terra ci è stata solo prestata dai nostri figli”), collegandolo ad un motto utilizzato dai verdi italiani nel 1986 (Convegno internazionale dei Verdi, a Pescara).

La frase, ampiamente riportata negli ultimi tempi, con varie sfumature (ad esempio: “Noi non ereditiamo la terra dai nostri padri,we borrow it from our children. la riceviamo in prestito dai nostri figli”), viene di solito attribuita ai nativi americani o ad un discorso di Seattle, capo delle tribù Duwamish e Suquamish. In realtà si sa solo che probabilmente qualcosa di simile era un proverbio dei nativi americani, come si deduce da quanto scrive chi per primo, nel 1971, ha espresso una frase simile: il noto ambientalista statunitense Wendell Berry[3], che, affermando “il mondo non ci è dato dai padri, ma in prestito dai figli”, collega tale visione o a persone eccezionali della nostra cultura o a coloro che appartengono a culture meno distruttive della nostra (e qui il riferimento potrebbe essere ai nativi americani).

Ma chiunque sia stato il primo ad aver ideato tale concetto, quello che ci interessa è capire il senso di tale frase, che sicuramente appartiene ad una visione etica e prospettica della difesa dell’ambiente.

Come spiega Alex nel testo citato, la generazione attuale sta mettendo a rischio le condizioni di vita delle prossime: vi è, in altre parole, un impatto generazionale sul quale dobbiamo riflettere. Ma Alex aggiunge che una denuncia solo catastrofista non trova seguito nella maggior parte della gente: “la paura è cattiva consigliera” e porta ad accettare la situazione (tanto siamo perduti e non c’è niente da fare). Dobbiamo “perderci per trovarci”, cioè autolimitarci per ridurre il nostro impatto generazionale, con grande spinta etica verso le future generazioni, ma anche rendendoci conto che questa autolimitazione ci fa ritrovare una migliore qualità della vita. Dobbiamo, spiega Alex, collegare le ragioni “altruiste”, verso le future generazioni (nobili, ma non sempre efficaci), con quelle “egoiste”, che ci diano dei vantaggi già oggi. Così rinunciare al trasporto privato quando quello pubblico funziona, oppure utilizzare fonti rinnovabili anziché energia di origine fossile ci permette di ridurre l’effetto serra (particolarmente pericoloso per i nostri figli e nipoti) ma anche di avere meno inquinamento e minor rischio di malattie fin da subito.

Oggi, rispetto a quando Langer scriveva questo testo, la situazione è fortemente peggiorata: si prospettano cambiamenti climatici comunque inevitabili, dato che, anche riducendo da subito i gas serra, ci sarà un innalzamento futuro della temperatura di circa 2 gradi, ma, senza interventi, l’aumento a fine secolo potrebbe arrivare a 5 gradi, con conseguenze catastrofiche, e si parla di sesta estinzione di massa a causa dell’alterazione di molti ecosistemi, con perdite di migliaia di specie.  Abbiamo inoltre nuovi strumenti per valutare l’impatto generazionale: l’impronta ecologica e l”overshoot day”, nonché tutti i recenti documenti dell’IPCC[4] (Intergovernmental Panel on Climate Change) cioè il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, voluto dall’ONU.

L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo e l’utilizzo di fonti fossili per ogni esigenza energetica sta gravemente compromettendo la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione. L’estinzione è un processo naturale ma ora, a causa delle attività umane, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. La comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell’uomo. Moltissime sono le specie minacciate e alcuni scienziati sostengono che il 10-20% delle specie attualmente viventi sul pianeta si estingueranno nei prossimi 20-50 anni. Secondo le stime dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN)[5] sarebbero più di 7 mila le specie animali e circa 60 mila quelle vegetali a rischio estinzione. Nella lista rossa, le specie animali sono cresciute dalle oltre 5 mila del 1996 alle quasi 7.300 del 2004. E tra queste sono compresi il 25% dei mammiferi conosciuti e l’11% degli uccelli. Delle 350 mila specie vegetali conosciute, invece, sono 60 mila quelle che rischiano di estinguersi. Si tratterebbe della “sesta estinzione di massa” della storia, conseguente al cattivo stato di salute della Terra, mai così critico da 65 milioni di anni a questa parte, ovvero dalla scomparsa dei dinosauri. Un disastro mai visto prima, se si pensa che a causare le crisi precedenti ci sono voluti svariati milioni di anni e delle catastrofi naturali, non, come oggi, poco più di un secolo di “rivoluzione industriale”.

Per verificare la sostenibilità o l’insostenibilità dell’attività umana si possono utilizzare vari metodi, tra cui la cosiddetta “carryng capacity” o capacità di un territorio di sostenere una popolazione, oppure l’impronta ecologica, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano.

L’impronta ecologica, proposta nel 1996 da Wackernagel e Rees[6], ha avuto una concreta e diffusa applicazione e, nel corso degli anni, diverse èquipe hanno sviluppato studi complessi relativi alle “impronte ecologiche” di città, nazioni e realtà specifiche.  Fino a quando la Terra potrà sostenere il peso di un’umanità, che identifica lo “sviluppo” con la “crescita” e questa con la ricchezza monetaria? Ribaltando l’approccio tradizionale alla sostenibilità viene proposto di non calcolare più quanto “carico umano” può essere sorretto da un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l’impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera.

L’impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l’area su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio e dai consumi. Questa analisi, inoltre, facilita il confronto tra regioni, rivelando l’effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito sull’impatto ecologico. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA e dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore eritreo (USA 12, Italia 4,2, Eritrea 0,35), che è come dire che sul pianeta uno statunitense “pesa” come 35 eritrei.

Per ridurre la nostra eccessiva impronta ecologica i consumi devono essere quantitativamente e qualitativamente sostenibili. Così la scelta dei prodotti industriali deve riguardare le modalità con cui sono stati prodotti, l’energia utilizzata, i materiali che li compongono e la loro origine, la loro durata, la loro riciclabilità, evitando consumi superflui. Analogo discorso va fatto per l’uso dell’energia, dell’acqua e dei trasporti.

Dobbiamo poi favorire un’agricoltura sostenibile, ripensando non solo come produrre, ma anche cosa e per chi. E’ necessario passare dalla logica quantitativa, basata sulla produttività, che ha caratterizzato l’agricoltura intensiva, nata dalla rivoluzione verde, alla logica qualitativa, basata sulla compatibilità ambientale e sulla salubrità dei prodotti.

Ciò significa rispettare il patrimonio naturale e passare da produzioni lineari a processi ciclici, mentre la sostenibilità richiede in tutte le aree del pianeta produzioni finalizzate a mercati prevalentemente regionali, con l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare. Ma per poter sfamare tutta l’umanità occorre anche modificare la dieta prevalentemente carnea dei paesi ricchi, verso una dieta simile a quella mediterranea, più sana e sostenibile, anche rispetto ai cambiamenti climatici (gli allevamenti intensivi contribuiscono significativamente alle emissioni di gas serra).

L’insostenibilità del nostro modo di produrre sta nella linearità, cioè nel prelevare risorse naturali esauribili (come le fonti di energia fossile e i minerali) per utilizzarle in processi produttivi che producono una gran quantità di rifiuti e di inquinamento, oltre all’oggetto da vendere, di effimera durata, che diviene a sua volta rifiuto, spesso non riciclato o peggio non riciclabile. Ma anche le risorse rinnovabili (come i prodotti naturali di origine vegetale o animale, utilizzati sia come cibo che nei processi industriali: si pensi al legno dei boschi o al pesce del mare) sono prelevati (rapinati) negli ecosistemi, in misura insostenibile, cioè in quantità maggiore rispetto alla naturale capacita di rigenerazione (si cattura ogni anno più pesce di quanto si riproduce in quell’anno, così l’anno successivo ci sarà una minore produzione naturale, ma un maggior prelievo, fino all’esaurimento della risorsa). Se consideriamo l’insieme delle risorse rinnovabili possiamo verificare che ogni anno esauriamo la quantità prodotta dalla natura in un tempo sempre più breve: il giorno in cui tali risorse vengono esaurite viene chiamato “overshoot day”[7]. L’ultima volta che le risorse sono state esaurite alla fine dell’anno, cioè il 31 dicembre, risale al 1986, mentre negli ultimi anni siamo arrivati alla metà del mese di agosto: è come dire che dopo tale data e per tutti i giorni da settembre a dicembre stiamo intaccando il capitale naturale, portando all’esaurimento le risorse (bosco, foresta, stock ittico, ecc.). Tutto ciò non significa solo esaurimento delle risorse, ma anche distruzione degli ecosistemi e degli habitat di molte specie che vanno verso l’estinzione.

Ma finora, di fronte a tali gravi emergenze, che stanno alterando la qualità della vita delle attuali popolazioni del pianeta e che rischiano di compromettere la sopravvivenza di quelle future, sia i governi locali che gli organismi internazionali si sono dimostrati impotenti, condizionati dallo strapotere delle multinazionali, soprattutto quelle legate al petrolio, tra le più potenti al mondo. Dopo venti anni di dibattiti e illusori accordi per ridurre i cambiamenti climatici, la situazione ha continuato ad aggravarsi e, di fronte alla crisi economica che ha origini anche nella crisi ecologica, i governi hanno proposto interventi che richiedono nuove produzioni e nuovi consumi, nella speranza di far crescere il prodotto interno lordo.

Ma gli esseri umani non sono i padroni della natura: come esseri viventi, e perciò parte della natura, devono interagire con il proprio ambiente, anche modificandolo, ma, come esseri pensanti e quindi responsabili delle proprie azioni, devono rispettarne le regole e i criteri, come, ad esempio, i cicli biogeochimici, che permettono un uso razionale delle risorse. Buy cheap bridesmaid dresses online. Come affermano Prigogine e Stengers[8] (autori del famoso saggio «La nuova alleanza») la nuova epistemologia deve passare da una conoscenza manipolatrice della natura, che seleziona e semplifica i sistemi oggetto di studio, ad una conoscenza volta ad approfondire l’intreccio complesso di connessioni tra i diversi sistemi, alla luce della coordinata tempo. Alla rozza semplificazione dei fenomeni naturali come fenomeni meccanici, bisogna sostituire un’analisi della complessità dei sistemi, interagenti tra loro, considerando l’irreversibilità dei fenomeni temporali, ciò che porta a riconoscere la storicità di una epistemologia naturale. Questa epistemologia naturale è una necessaria premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane «non riducano a merce ogni bene materiale ed immateriale», come afferma M. Cini[9], ma sappiano inserirsi nei complessi e delicati equilibri dinamici, presenti nell’ambiente naturale, senza distruggerli, senza trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli organismi viventi.

In altre parole occorre abbandonare un’economia basata solo sulla crescita e sull’aumento del PIL per avviarci verso una nuova economia, intesa come scelta volontaria di una società che decresce, che, come dice Serge Latouche[10],“ è una scommessa che vale la pena di essere tentata per evitare contraccolpi brutali e drammatici”. Oltre venti anni fa Langer[11] osservava: “Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono (basti pensare all’attuale scontro sul petrolio) o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il ‘più grande, più alto, più forte, più veloce’ chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri viventi.” E sempre Langer metteva in luce che quest’ultima è un’utopia ‘concreta’, mentre la crescita illimitata, basata sul ‘sempre più veloce e sempre più grande, è una pericolosa illusione, comunque irrealizzabile.

Vi sono molte iniziative concrete e buone pratiche, che, come dice Paul Hawken[12] in ‘Moltitudine inarrestabile’, sono portate avanti spesso da piccole realtà, che “non si riconoscono nelle ideologie tradizionali e non fanno riferimento a leader o a istituzioni centrali. Hanno obiettivi che dipendono dai contesti in cui operano e dalla loro storia”. L’elenco delle ‘buone pratiche’ è vasto: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, laboratori di autoproduzione, microcredito, radio e tv di strada, last minute market, mobilità dolce e auto condivise, cohausing, cooperative di auto recupero, in altre parole una gestione condivisa dei beni comuni.

[1] Langer A. L’intuizione dell’austerità, “Mosaico di pace”, n.9 – novembre 1992 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/143/2750)
[2] Langer  A. Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli, «Servitium», settembre 1989 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/148/3315/print)
[3] Berry W. “The Unforeseen Wilderness: An Essay on Kentucky’s Red River Gorge” U P Kentucky , 1971
[4] si veda l’ultimo volume: Climate Change 2014 – Synthesis Report – Summary for Policymakers http://www.ipcc.ch/report/ar5/syr/
[5]  Lista Rossa IUCN (Stuart et al. The barometer of life. Science 328:177, 2010)
[6] Wackernagel M. e W. E. Rees  “L’impronta ecologica”, Ed. Ambiente, 2000
[7] Global Footprint Network’s:  http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/earth_overshoot_day/
[8] Prigogine I.  e I. Stengers “La nuova Alleanza”, Einaudi, 1981
[9] Cini M. “Dialoghi di un cattivo maestro”, Bollati Boringhieri, 2001
[10] Latouche S. “La scommessa della decrescita”, Feltrinelli 2007
[11] Langer A., in:”Azione nonviolenta” , 1991
[12] Hawken P. “Moltitudine inarrestabile” Ed. Ambiente, 2009

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